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Il tempo che av-viene

Orientamenti fondamentali per un tempo bisognoso di uomini e donne vigilanti: l’Avvento

Considerazioni come: «Ecco, è già Natale: dopodomani sarà Pasqua» ci capitano continuamente nelle orecchie, in questi giorni, se non in bocca. È più che normale, in effetti, che si torni a chiedersi come si possa dire, di una cosa che si ripete tale e quale ogni anno (a date programmate, perfino!), che essa è una novità. Ma quale novità? Ma cosa stiamo aspettando? «Ah, già… – osserverebbe laconico e scettico Beckett – Aspettiamo Godot!». Le questioni dall’apparenza irriverente sono non di rado tra le più profonde e tra le più feconde per il pensiero – perlomeno se non si trasformano repentinamente in banali slogan e altre facilonerie da piazza – tanto che anche nelle Scritture sacre a Israele e alla Chiesa si leggono queste considerazioni meste e tragicamente grandiose: «Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; / gira e rigira / e sopra i suoi giri il vento ritorna» (Qo 1,6).

Anzitutto ricordiamoci che, mentre quella del Natale è una celebrazione molto consolidata (quantunque non estranea a diverse problematiche, specie sull’origine e sul primo sviluppo), l’Avvento ha conosciuto vicende alterne, nel corso dei secoli: è nato in Gallia e in Spagna tra il IV e il V secolo, come una sorta di “Quaresima minore”, in preparazione al Natale (ovvio che i temi portanti erano diversi). Dal VI secolo anche i libri liturgici romani hanno pagine “De Adventu Domini”, sebbene la prassi, l’estensione e le consuetudini e il significato dell’Avvento non vengano stabilizzati che con la riforma carolingia, quindi nel IX secolo. Da qui in poi s’è conosciuto tutto un gioioso fiorire di produzioni artistiche dedite a meditare l’attesa del Messia alla fine dei tempi e il ricordo del “primo avvento”, con particolare attenzione al mistero ineffabile della divina maternità di Maria.

L’Avvento come lo conosciamo noi, però, è qualcosa come una “riesumazione” liturgica della seconda metà del XIX secolo: lentamente, infatti, non solo l’Avvento ma l’intero anno liturgico era stato seppellito sotto un gran cumulo di devozioni private – sostanzialmente ottime, ci mancherebbe – le quali però non lasciavano più percepire il senso ultimo della celebrazione ecclesiale (e la sua perenne novità), come non lasciavano più percepire che il tempo nasce anzitutto come celebrazione.

Che vuole dire questo? In effetti ancora oggi avere coscienza di questo è tutt’altro che scontato: noi viviamo quotidianamente immersi in una imponente e spesso caotica sovrapposizione di differenti calendarî, cui si aggiungono le nostre piccole-grandi scansioni temporali. Così mentre è in corso l’anno civile iniziano e terminano non solo gli anni liturgici, ma anche gli anni lavorativi, gli anni accademici e persino gli anni solari; tra le maglie di questi reticoli sovrapposti si collocano le estensioni mensili, bimestrali o trimestrali dei corsi d’aggiornamento, delle stagioni teatrali e di tutti quegli eventi che costellano una vita culturale appena decente. Qual è il risultato di questa compresenza di cronologie nient’affatto omogenea e sincronica? Che siamo spontaneamente portati a pensare il tempo come un’entità di per sé neutra, su cui poi noi (bontà nostra!) apporremmo tutti i nostri calendarî e (ora viene il bello!) i nostri impegni!

Se questa ci pare la nostra percezione fondamentale, essa invece non è che il frutto di un’astrazione molto tarda della nostra primaria esperienza del tempo, la quale è scandita anzitutto da eventi che decidono di noi: la fame e il sonno ingenerano in un neonato (che comunque ha già le sue misteriose esperienze di tempo prenatale) le due scansioni “nutrizione-digiuno” e “veglia-sonno”, e questo a dispetto di ogni orologio, come tutti i genitori del mondo sanno bene.

Ho talvolta sentito enfatizzare l’invenzione dell’orologio come segno inconfutabile della modernità in quanto creazione di uno strumento pienamente antropico a fronte della previa dipendenza dall’osservazione di fenomeni mondano-naturali come il tragitto (apparente) del sole e quello (molto più complesso e quasi mai sempre e solo apparente) degli altri corpi celesti: l’adattamento del ritmo biologico neonatale al ritmo cosmico luce-tenebra – adattamento che ha ripercussioni pesantissime sulla preghiera, sulla liturgia e sulla teologia! – costituisce comunque un primo gigantesco fenomeno di astrazione, indefinitamente in bilico tra l’ordinarietà del regno animale (perché ogni specie animale sceglie tra una vita diurna e una notturna, e anche in questo senso l’uomo è “anfibio”) e la peculiarità specifica del mistero umano (la prassi comune dell’adorazione del sole nelle culture primitive dice già di una dimensione che le lucertole non scopriranno mai, per quante ore possano stare a rosolarsi sotto al solleone). L’orologio, comunque, non è un’invenzione della modernità: anche lasciando da parte le meridiane – non fanno testo, funzionando ancora soltanto come “cartina di tornasole” del sole – i primi orologî che la storia umana ricordi sono le clessidre degli egizî (risalenti alla metà del II millennio a.C.) e gli orologî ad acqua del genio ellenistico (diciamo III secolo a.C.). Non sono distintivi della modernità, quindi, ma certamente ne sono grandi artefici (un po’ come dei “germi di modernità” da sempre in circolo nella storia). Verso la metà del XII secolo, poi, il genio (veramente) illuministico dei soliti monaci medievali ha sottratto all’orologio anche il lievissimo condizionamento dalle proprietà dei gravi (le clessidre – funzionino a sabbia oppure ad acqua – sfruttano leggi fisiche proprie della materia): la rivoluzione degli orologî meccanici, invece, giungeva a ideare sistemi di controllo per la distribuzione dell’energia fisica che riserve energetiche come molle e pendoli producevano fisicamente – questo vuol dire concepire la durata del tempo in sé e per sé, e non semplicemente come misurazione di qualcosa che accade (poco importa se fosse la corsa del carro di Apollo o quella dei granelli di sabbia).

A questo grandioso prodigio della trascendenza umana (sarà la terza meraviglia del nostro ingegno, dopo il numero, la ruota e il denaro?) l’enorme progresso della tecnica moderna potrà aggiungere poco: il digitale è più preciso e meno variabile del meccanico, ma il salto qualitativo dell’invenzione era già stato fatto, questi sono perfezionamenti. Spero che qualcuno si stia chiedendo perché mi sto dilungando così tanto sugli orologî: in effetti ci sarebbe da dilungarsi per lo spazio di un’enciclopedia perché, anche se l’invenzione può dirsi sostanzialmente conclusa per la fine del XII secolo, lo studio della sua storia successiva ci porta a diverse considerazioni, che riguardano molto da vicino la comprensione di un ciclo temporale sostanzialmente diverso dal tempo degli orologî. Osserviamo a volo d’uccello soltanto che i primi orologî sono esclusivamente quelli delle torri pubbliche (prima religiose, poi civiche), e benché i ricchi si sarebbero sempre potuti permettere l’installazione di un orologio domestico, questi non fanno la loro comparsa prima degli albori dell’umanesimo. Parallelamente alla crescita della domanda e allo sviluppo della tecnica orologiaia, la miniaturizzazione degli orologî procede fino allo stadio di soprammobili (siamo nel XVIII secolo). Orologî personali, però (prima da taschino e poi da polso) non vedranno la luce che tra il XIX e il XX secolo. Solo una questione di abilità tecniche non ancora perfezionate? Soltanto gli adoratori della tecnica (che non di rado non conoscono altra tecnica al di fuori della Play Station) possono assentire a questa ipotesi, e rinsaldare così frettolosamente il loro partito preso. Anche una superficiale considerazione della straordinaria abilità raggiunta dagli orafi tra il rinascimento e il neoclassicismo (passando per barocco e rococò) basta a suggerirci che la ragione dev’essere altrove e che, quale che sia, essa non sarà indifferente agli effetti della straordinaria “prima rivoluzione industriale”.

Con essa il tempo, che dall’antichità era stato un dominio della natura appena segmentato dall’uomo; che dal basso medioevo era poi divenuto il concretarsi di un’astrazione primaria dell’essere umano (che insegnano, sennò, pur se in modi radicalmente diversi, Kant ed Heidegger?); che aveva così guadagnato una dimensione pubblica essenzialmente mediata dalla civiltà; e che era simbolicamente scivolato nell’appropriazione privata degli oligarchici attori dell’ancien Règime prima, e della più larga borghesia poi, si trovava infine nei taschini e ai polsi di ogni imprenditore, prima, e di ogni operaio poi. Non a caso i contadini sono stati gli ultimi (e anche i più refrattarî) all’adozione di una rivoluzione a loro non strettamente necessaria: con l’orologio massivamente diffuso il tempo dei Tempi moderni di Chaplin non smetteva di essere pubblico, ma cominciava a essere anzitutto e perlopiù tempo lavorativo. La prova del nove sta nel fatto che il tempo “libero”, ossia quello che per qualche motivo sfugge alla trama dell’orario di lavoro, dev’essere gestito con modalità ugualmente impegnate (e socialmente rilevanti, come una sorta di status symbol): chi ci aveva mai pensato, che “hobby” e “sport” sono parole inglesi indicanti prassi che si vanno sviluppando proprio nella seconda metà del XIX secolo?

Io no, a dire il vero, e mi ci ha fatto pensare non molto tempo fa Andrea Grillo (Tempo e preghiera, EDB, Bologna, 2000), suggerendomi anche che forse non a caso quei decennî sono il periodo in cui la coscienza ecclesiale prende a muoversi sul versante di ciò che si chiamerà poco dopo “movimento liturgico”: era la Chiesa che cominciava a tematizzare il proprio tempo nel tempo del tempo. Oggi gli orologî ci spiano da almeno due-tre postazioni contemporaneamente, in qualunque luogo ci troviamo: mentre essi sono sempre più (nel tripudio delirante della tecnocrazia) “come il sacramento del tempo comune”, quasi nessuno riesce più a ricordarsi della schiacciante marca antropica che essi riportano su strumenti come le precedenti clessidre.

Non riuscire più a focalizzare – in breve – che il tempo è dell’uomo e per l’uomo, mentre il viceversa vale solo entro certi limiti e sotto certe condizioni, rende pressoché impossibile comprendere come faccia il tempo liturgico a propugnare una novità permanente, ovvero che permanendo si rinnova. Il fatto è che anche il meccanismo dell’orologio si basa sulla ruota (opportunamente dentata), e che la ruota – per quanto sia assolutamente l’invenzione più fondamentale della storia umana! – è irriducibilmente inadeguata a indicare il tempo. Il tempo, infatti – il tempo umano (ovvero l’unico che ci sia perché, con buona pace degli animalisti, l’uomo è l’unico animale temporale) – non è mai uguale a se stesso, e più che una ruota ci vorrebbe una spirale elicoidale a rappresentarlo geometricamente, ma poi come la si metterebbe nella cassa di un orologio?

Questa cosa la sappiamo da sempre, anche se molto presto l’abbiamo dimenticata, perché prima che la mamma ci regolasse le poppate era il bisogno della poppata (segnalata con pianto rituale) a mostrare alla mamma che c’era un altro tempo; c’era già, informe, un tempo che lei non conosceva, ma al cui avvenimento poteva solo corrispondere (o non farlo, chiaro). Prima che nell’astrazione tematica, il tempo si dà nell’uomo come memoria di un evento (anzitutto la poppata!) che distende una dilatazione della mente tra memoria e attesa.

Questo è quanto, ma sono sicuro che tra i miei lettori molti saranno abbastanza eruditi da ricordarsi che i Greci pensavano il tempo come una circolarità perfetta, eternamente identica a se stessa. Vero, ed ecco perché questa rapida storia dell’orologeria non è affatto fuori luogo in una rubrica teologica: perché fu il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – il Dio di Gesù Cristo – a mostrare che il tempo si distende anzitutto a partire da un Avvento.

E che avesse ragione quel Dio e non i Greci (con tutta la loro sapienza) lo dimostra precisamente la poppata.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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