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I figli imparano dai genitori

Sdoganata la bestemmia in TV

Vi presento una di quelle notizie per le quali vorrei che noi cristiani ci mobilitassimo, montassimo campagne in difesa dei nostri diritti e, nel caso avanzasse tempo, cambiassimo anche le immagini dei nostri profili Facebook: hanno liberalizzato la bestemmia in TV.

Prima dell’attuale riforma, il Testo Unico per la radiotelevisione (art. 4 del T.U.) vietava la diffusione di trasmissioni, anche pubblicitarie e le televendite, «che offendono convinzioni religiose o ideali». Per queste violazioni erano previste sanzioni (art. 51 del T.U.) anche se del tutto irrisorie. Comunque, la bestemmia era sanzionata.

Oggi non è più così. Il legislatore ha eliminato ogni sanzione.

Il nuovo Testo Unico per la radiotelevisione (art. 32, comma 5) recita così: «I servizi di media audiovisivi prestati dai fornitori dei servizi di media soggetti alla giurisdizione italiana rispettano la dignità umana e non contengono alcun incitamento all’odio basato su razza, sesso, religione e nazionalità». Tutto qui. Non è prevista alcuna sanzione in caso di violazione di queste norme. Se non bastasse, nel Decreto Romani, è scomparso anche il divieto di trasmissione di spot pubblicitari che offendono le convinzioni religiose. Significa che ora in pubblicità si può essere anche apertamente blasfemi, senza correre il rischio di subire sanzioni. A non rendere del tutto libera la bestemmia in tv, è solo il Codice di autoregolamentazione media e minori che prescrive il divieto di offesa alle convinzioni religiose, però solo per le trasmissioni d’intrattenimento e solo nella fascia oraria 7/22. In pratica una bestemmia in un programma alle ore 23 o di notte non è sanzionabile. E non sono mai sanzionabili, a qualunque ore del giorno e della notte vadano in onda, spot, film, fiction e quanto la tv è capace di trasmettere al di fuori dei programmi d’intrattenimento.

Dire che la notizia si commenta da sé è troppo facile, “autogestire” la propria TV è troppo comodo. Sdoganare la bestemmia­ in TV è un provvedimento grave ed anche giuridicamente anomalo, perchè sembrerebbe traghettarci verso il Diritto Consuetudinario, nell’accezione peggiore del termine: legittimiamo e ratifichiamo la bestemmia, perché la bestemmia è diventata una consuetudine nel parlare comune. Se in un paese civile è consuetudine dire parolacce e bestemmiare, facciamolo anche in TV: la TV non deve, forse, rappresentare la società civile? La bestemmia e la blasfemia non sono più reato, sono – direi – un “neo neo-realismo”: un reality.

Sulla brutta consuetudine della parolaccia nel nostro civilissimo Paese, di recente, è stata pubblicata – dal Centro Psicopedagogico per la pace e la gestione de conflitti (Ccp) di Piacenza – una ricerca dal titolo “Adolescenti insultanti nei confronti dei genitori” (clicca link). Lo studio mette in luce come il linguaggio volgare, sboccato e violento, dilaghi tra i ragazzi, tra gli adulti, ma­ ultimamente – in maniera sconcertante – anche tra figli e genitori.

L’indagine ha coinvolto un campione di quasi 200 studenti di terza superiore (età 16-17 anni) equamente divisi tra cinque comuni italiani: Osimo (Ancona), Rho (Milano), Vicenza, Piacenza e Chiavari (Genova). A fronte del 20% che ha dichiarato di non ingiuriare mai verbalmente i genitori, neanche quando si arrabbia, ben quasi il 40% ha detto di farlo normalmente, il 9% addirittura spesso. La madre, di media, è la più insultata e con termini più offensivi rispetto al padre. Il genere di offese indirizzate alla madre è vario: tutte le declinazioni del “rompi”, associate a “str…., egoista, incoerente, rovinata, handicappata”, fino a pesanti insinuazioni sui presunti “facili costumi” della madre. Il papà, invece, è destinatario di moltissimi “vaffa…”, qualche “rompi”, ma il dato più interessante è che riceve molte “ingiurie-richieste” di attenzioni: “tu non mi capisci”, pensi solo a te stesso”, “non ti interessi di me e di quello che penso”.

A differenza di ciò che si pensa comunemente, i bambini e i ragazzi non sono solo la parte fragile o le vittime della violenza famigliare, loro stessi possono fare violenza sui genitori. Esiste – da un punto di vista psico-sociologico – la tipologia del “figlio tiranno”: un figlio che insulta, squalifica, offende, ricatta, manipola, un figlio che picchia i genitori, quasi sempre la madre. Il “figlio tiranno” non deve essere confuso con una variante del bullismo, né pensato come prodotto malriuscito di famiglie degradate. La casistica rivela, piuttosto, che il figlio violento è presente in tutte quelle famiglie nelle quali – a prescindere dall’estrazione socio-culturale – sono completamente saltati i rapporti parentali: «i genitori – il mondo adulto in generale – vengono percepiti come modelli morbidi ed inconsistenti, tali da creare nei figli un senso di sostanziale orfanità, cioè di mancanza di figure educative». Genitori “giovanilisti”, “mamme amiche”, “papà latitanti con giustificazione-lavoro”, questi i genitori – né autorevoli e né autoritari – dei figli tiranni; e, ancora, lo sono i genitori che – in situazioni di crisi di coppia – investono il figlio del “ruolo del partner” che li ha abbandonati, o di quello di “giudice” chiamato a dare ragione/torto ad uno dei genitori in conflitto.

In sintesi, il figlio tiranno, è un figlio che usurpa il posto vacante di un genitore o entrambi: è un tiranno legittimato dai suoi stessi sudditi. La psicologia e le varie discipline del sapere umanistico, naturalmente, sono tutte una fioritura di teorie sul “figlio tiranno” e di relative proposte terapeutiche. Tutte, poi, sono accomunate dalla stessa convinzione: la cura del “figlio tiranno” e della famiglia usurpata devono venire dall’esterno, da professionisti qualificati che, monitorando i casi, suggeriscano anche l’adeguata terapia.

Noi, invece, vorremmo ricordare che – per il cristianesimo – la medicina per evitare ogni forma di disgregazione famigliare, è, e sarà, il rispetto di un comandamento: «Onora tuo padre e tua madre», associato ad una promessa: «perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra» (Ef, 6, 1-3). Il rispetto di questo comandamento procura insieme con i frutti spirituali, frutti temporali di pace e di prosperità, per la famiglia e la società nel suo complesso. A questo fine, la famiglia comporta una diversità di responsabilità, di diritti e di doveri tra i suoi membri, ai quali si riconosce uguale dignità. Il rispetto per i genitori (pietà filiale) è fatto di riconoscenza verso coloro che, con il dono della vita, il loro amore e il loro lavoro, hanno messo al mondo i loro figli e hanno loro permesso di crescere in età, in sapienza e in grazia: «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare i dolori di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato; che darai loro in cambio di quanto ti hanno dato? » (Sir 7,27-28). Il rispetto filiale si manifesta anche attraverso la vera docilità e la vera obbedienza: «Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre […]. Quando cammini ti guideranno; quando riposi, veglieranno su di te; quando ti desti, ti parleranno» (Prv 6,20-22). «Il figlio saggio ama la disciplina, lo spavaldo non ascolta il rimprovero» (Prv 13,1). (Cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, cap. II, art. IV- “Il quarto comandamento”).

Ai doveri dei figli corrispondono, naturalmente, anche uguali doveri per i genitori: «I genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei loro figli. Testimoniano tale responsabilità innanzitutto con la creazione di una famiglia, in cui la tenerezza, il perdono, il rispetto, la fedeltà e il servizio disinteressato rappresentano la norma. Il focolare domestico è un luogo particolarmente adatto per educare alle virtù. Questa educazione richiede che si impari l’abnegazione, un retto modo di giudicare, la padronanza di sé, condizioni di ogni vera libertà. I genitori insegneranno ai figli a subordinare “le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spirituali”. I genitori hanno anche la grave responsabilità di dare ai loro figli buoni esempi. Riconoscendo con franchezza davanti ai figli le proprie mancanze, saranno meglio in grado di guidarli e di correggerli. L’educazione alla fede da parte dei genitori deve incominciare fin dalla più tenera età dei figli. Essa si realizza già allorché i membri della famiglia si aiutano a crescere nella fede attraverso la testimonianza di una vita cristiana vissuta in conformità al Vangelo. La catechesi familiare precede, accompagna e arricchisce le altre forme d’insegnamento della fede». (Cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, cap. II, art. IV- “Il quarto comandamento”).

Questa è la famiglia nei piani di Dio, formata da membri di uguale dignità, ciascuno con i propri doveri e diritti. La famiglia, in sintesi, è il primo luogo in cui i figli imparano ad essere figli ed i genitori ad essere genitori, non esistono medicine valide per la famiglia che siano esterne ad essa: questo il contributo, originale nella sua specificità, del cristianesimo. La famiglia sola può curare se stessa, riscoprendo come Dio l’ha pensata, riscoprendo cioè la sua natura ed il suo fine.

I modi di stare insieme dentro la famiglia vengono ereditati e trasmessi tra le generazioni. Ognuno insegna ciò che ha vissuto:

«I figli imparano dai genitori»

«A casa mia la religione non aveva nessun carattere solenne: ci limitavamo a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme. Però c’era un particolare che ricordo bene e me lo terrò a mente finché vivrò: le orazioni erano intonate da mia sorella e, poiché per noi bambini erano troppo lunghe, capitava spesso che la nostra “diaconessa” accelerasse il ritmo e si ingarbugliasse saltando le parole, finché mio padre interveniva intimandole di ricominciare da capo. Imparai allora che con Dio bisogna parlare adagio, con serietà e delicatezza. Mi rimase vivamente scolpita nella memoria anche la posizione che mio padre prendeva in quei momenti di preghiera. Egli tornava stanco dal lavoro dei campi e dopo cena si inginocchiava per terra, appoggiava i gomiti su una sedia e la testa fra le mani, senza guardarci, senza fare un movimento, né dare il minimo segno di impazienza. E io pensavo: mio padre, che è così forte, che governa la casa, che guida i buoi, che non si piega davanti al sindaco, ai ricchi e ai malvagi… mio padre davanti a Dio diventa come un bambino. Come cambia aspetto quando si mette a parlare con lui! Dev’essere molto grande Dio, se mio padre gli si inginocchia davanti! Ma dev’essere anche molto buono, se gli si può parlare senza cambiarsi di vestito. Al contrario, non vidi mai mia madre inginocchiata. Era troppo stanca la sera, per farlo. Si sedeva in mezzo a noi, tenendo in braccio il più piccolo… Recitava anche lei le orazioni dal principio alla fine e non smetteva un attimo di guardarci, uno dopo l’altro, soffermando più a lungo lo sguardo sui piccoli. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la molestavano, nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto combinava qualche malanno. E io pensavo: dev’essere molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio e vestendo il grembiule. E dev’essere anche una persona molto importante se mia madre quando gli parla non fa caso né al gatto, né al temporale! Le mani di mio padre e le labbra di mia madre mi hanno insegnato cose importanti su Dio!».

(Padre A. Duval S. J.)