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Preghiera in luglio

Meditando la morte (precoce?) di una grande artista: Amy Winehouse

«We only say good-bye with words, / I died a houndred times…» [«Diciamo “addio” solo a parole, / sono morta un centinaio di volte»]: sono i versi che aprono il ritornello di una delle canzoni più celebri di Amy Winehouse, una di quelle che l’hanno portata alla ribalta internazionale. Di centinaia di morti, tuttavia, quella della settimana scorsa ha buona probabilità di essere l’ultima, e benché le parole di quella canzone (Back to black) fossero rivolte a un ragazzo (anche senza troppe finezze lessicali), riascoltarle ora fa pensare alla solitaria fine di Amy, e magari alla visione del mondo e della vita che da quella canzone trapela: «And life is like a pipe / and I’m a tiny penny rolling up the wall inside» [«La vita è come una canna fumaria / e io sono un minuscolo penny che risale la parete, dentro»].

È un peccato che gran parte del vaniloquio mediatico che bisogna necessariamente sopportare in queste circostanze si sia data a concentrarsi sulle cause della morte di una ventisettenne, ricercandole tra tutti i possibili agenti estrinseci di un decesso, e trascurando totalmente le ragioni per cui un cuore può smettere di battere. Schematizzando, le posizioni sono fondamentalmente due: da una parte ci sono quelli che dànno la colpa agli altri (la società, la politica, la famiglia, gli amici, il fidanzato…), dall’altra quelli che la dànno a lei («Beh, se l’è cercata, in fondo erano anni che ci girava intorno!»). Intorno a che? Non s’è capito, perché dal vortice di droga e alcol Amy era più volte (parzialmente) uscita, e del resto la prima autopsia non ha trovato nulla di particolare. Su queste due posizioni se ne “rispalmano” altre due, più o meno omogeneamente: da un lato ci sono quelli che stanno piangendo Amy e dall’altro quelli che quasi si scandalizzano di come si possano versare lacrime per una sola persona (plausibilmente morta per un proprio deliberato stile di vita) laddove se ne dovrebbero (?) piangere molte di più per le vittime dell’attentatore norvegese. Di solito il gruppo delle persone che piange un artista morto è quello che attribuisce la causa della sua morte ai fattori esterni, mentre generalmente quelli che non lo piangono sono quanti considerano come la sua morte sia stata un effetto di una condotta già previamente avvertita come esiziale. C’è però una parte delle persone che la piange – una minoranza significativa – la quale non solo ammette le responsabilità dell’artista, ma ne fa quasi il manifesto del suo genio.

Una di queste persone ha dichiarato, in un’intervista a Rollin Stone, che «un sacco di gente ha fatto dei commenti orribili su Facebook, ma se ci si pensa sono gli stessi che vogliono che i loro figlî crescano e diventino famosi. […] La gente non capisce il prezzo della fama» [trad. mia]. Amplissimo luogo comune, che vuole che il successo distrugga le vite di quelli che vi arrivano. No, sfatiamo il mito: il successo aggiunge un nuovo carico di responsabilità e di tentazioni, ma non produce necessariamente la fine del talento o la rovina della persona. C’è tutta una cattiva e superficiale teoria della storia dell’arte, che vorrebbe asserire un nesso tra talento e vita “maledetta”: in realtà questo è un prodotto di esistenzialisti da quattro soldi che hanno fatto di Baudelaire e Rimbaud un paradigma di “artista” cui non solo i tutto sommato facili Van Gogh e Caravaggio vengono assimilati, ma anche i più distanti Dalì e Montale (per questi basta tirare in ballo quell’altro prezzemolo psicanalitico che è la “nevrosi”): voilà, “un artista”.

In realtà, quello che sappiamo della vita dei più grandi e conclamati genî dell’umanità – Dante, Shakespeare, Bach, Mozart, Michelangelo – basta a dire che essi non furono più nevrotici, irascibili o lunatici dell’uomo medio (mentre ebbero mediamente maggior senso della concretezza e talvolta spiccato talento amministrativo-imprenditoriale), e che i casi in cui l’artista s’è dimostrato veramente eccessivo ed eccentrico sono casi in cui il genio ha tollerato il disturbo, e talvolta vi ha trovato anche tormentata fonte d’ispirazione. Troppo poco per pretendere che il genio nasca dal tormento interiore: per l’appunto, vi sono tipi molto diversificati di “tormento”, ma poi l’esperienza concreta sembra dire altro. Partiamo ad esempio dall’ultimo concerto di Amy, all’inizio di una tournée le cui date sarebbero state annullate pochi mesi fa, appunto dopo l’esibizione di Belgrado. La povera Amy non riusciva a ricordare le parole delle sue stesse canzoni: il pubblico dev’essere cambiato, se la giovane londinese è stata fischiata dai suoi stessi fan lì presenti, invece di aver ricevuto l’osannazione incondizionata che ebbero tanti cantanti strafatti di acidi e anfetamine negli anni Settanta e Ottanta. Perfino Claire Hoffman (una giornalista di Rollin Stone), andando a intervistarla a casa sua, restò sorpresa di trovare l’appartamento disordinatissimo e pieno di spazzatura sparpagliata qua e là. Era il 2008, e lei aveva esordito con una battuta riportata dalla giornalista: «È che non c’è mio marito». Poi però aveva ripreso, come parafrasando gli ultimi versi di Mercury in Bohemian Rapsody: «Sono annoiata, sono giovane… mi sento come se non ci fosse nulla per cui vivere…». Solo chi non conosce davvero questa modalità di vita “in stand-by” può trovare “romantica” e “pittoresca” la dichiarazione di Amy, perché D’Annunzio che scriveva con commossa nostalgia dei “suoi” pastori non puzzava di pecore come loro, e quando “per ispirarsi” andava a stare sui monti con loro, la compresenza del Vate e dei bucolici personaggî funzionava sulla base di un patto di “degnazione-onorificenza”. Guarda caso Ennio Flaiano, superate le convenzioni dell’estetismo dannunziano in una cascata di ironia, ebbe a dire che «è proprio di tutti i cattivi scrittori desiderare un brutto appartamento senza telefono a Parigi».

Amy non fu grande perché “bella e maledetta”, ma nonostante questo: le contraddizioni del suo personaggio avvolgono una sensibilità acuta del lato oscuro del mondo (di cui fu vittima, prima che interprete). Ecco perché una Trudi qualunque può dar voce al suo affetto per il personaggio di Amy – ovviamente “sconosciuto” sul piano “personale” – chiedendo: «Come può uno non essere un fan di Amy Winehouse? […] Una parte di me ha sempre voluto credere che avrebbe superato tutto questo e che ne sarebbe venuta fuori. […] Non possiamo credere che se ne sia andata».

Inopportune le canonizzazioni, inopportune le denigrazioni: i benpensanti che paventano il rischio che certi “cattivi esempî” dànno alle “nuove generazioni” dovrebbero piuttosto considerare il contrario – ovvero che Amy fu l’esponente talentuosa di un diffusissimo malessere giovanile, comunissimo nella società inglese, in cui il tasso di alcolismo giovanile è qualcosa di incredibile. Jared Leto, che era stato chiamato da agenzie dello spettacolo per rimpiazzare Amy dopo il suo forfait serbo, ha scritto, parlando di lei, che «invece di riempire i tabloid più energie dovrebbero essere spese per aiutare la persona».

Bella scoperta! E come si aiuta uno che ha nell’anima un buco del genere? Di che lo si può nutrire? Noialtri, noiosi gesuomani, abbiamo sempre la stessa risposta, e pretendiamo che Gesù risponda perfettamente a ogni domanda umana. Amy, però, non credeva in Dio, e l’unica cosa che (per quanto ne sappiamo) aveva in comune con Gesù era l’appartenenza al popolo ebraico: sì, probabilmente quello di cui ogni inglese acuto si sarebbe accorto a una prima occhiata al suo cognome e alla sua fisionomia è diventato noto ai più soltanto tramite le immagini della sua cerimonia funebre, pochi giorni fa – tutte quelle kippôt sulle teste degli uomini lasciavano poco spazio a dubbî. Per questa ragione il nostro pensiero per Amy vuole librarsi senza condanne e senza canonizzazioni (cose che servono di norma più ai vivi che ai morti, e in questo caso sono inutili tanto per lei quanto per noi), sulle note di una preghiera che ha in Gesù “soltanto” il discreto e taciuto ispiratore, come sono tutte le canzoni religiose di De Andre’. Preghiera in gennaio fu scritta per la morte di Luigi Tenco, cercata ben più chiaramente di quanto risulti quella di Amy, ma ugualmente condizionata dall’indifferenza e dall’inettitudine degli uomini, che non hanno saputo aiutarli (è cosa umana, in fondo, aiutare?) e che forse invece hanno contribuito nell’innalzare la torre di solitudine da cui improvvisamente entrambi sono precipitati.

La nostra Preghiera in luglio non vuole nascondersi – come il Faber tentava di fare – che c’è l’inferno, «nel mondo del buon Dio», e che non c’è «solo per chi ne ha paura». L’inferno c’è anche per chi non vi crede e per chi non crede in Dio, ma il giudizio che salva per giusta grazia o che per graziosa giustizia condanna lo lasciamo esclusivamente nelle mani di Dio. A noi resta di poter sperare e di poter supplicare la Pietà celeste (quello che forse non avevamo fatto e non abbiamo insegnato a fare): «Lascia che sia fiorito, / Signore, il suo sentiero, / quando a te la sua anima / e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare, / quando verrà al tuo cielo, / là dove in pieno giorno / risplendono le stelle». E non è negare l’inferno e la possibilità di finirci, il ricordare a noi stessi, davanti al buon Dio, quello che il buon Dio stesso in Gesù ci ha rivelato: «Dio di misericordia, / il tuo bel paradiso / l’hai fatto soprattutto / per chi non ha sorriso».

Anche se poi non ci azzardiamo a presumere che la coscienza di un essere umano possa essere pura, come la sognava De Andre’, tuttavia è di noi stessi che dobbiamo sospettare, quando siamo costretti ad ammettere che la misura della nostra misericordia (misura con la quale saremo giudicati anche noi) è ugualmente troppo stretta per “salvare” Amy, Luigi e noi stessi: «Signori benpensanti, / spero non vi dispiaccia / se in cielo, in mezzo ai santi, / Dio, fra le sue braccia, / soffocherà il singhiozzo / di quelle labbra smorte, / che all’odio e all’ignoranza / preferirono la morte».

E concluderemo il nostro ricordo per Amy senza attribuirle quell’esclusiva che De Andre’ sottrasse incautamente a Gesù per darla all’amico Luigi, ma ricorderemo al buon Dio che in Amy si vedono esemplati gli errori (e i peccati) di noi tutti, che egli può e vuol salvare: «Ascolta la sua voce, / che ormai canta nel vento. / Dio di misericordia, / vedrai, sarai contento. / Dio di misericordia, / vedrai, sarai contento».

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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