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Parabola di una parabola: Titanomachia eretica

Che sarebbe se due “eretici” litigassero fra loro? Dalla febbre dei concilî, nelle pieghe della Riforma

L’ultima volta che ci siamo intrattenuti a parlare delle vicende storiche della nostra parabola (clicca link) eravamo arrivati alla fine del XIII secolo, diciamo alla morte di Tommaso d’Aquino (che morì mentre era in viaggio, diretto a un importante concilio a Lione, nel 1274). A Tommaso abbiamo potuto dedicare troppo poco tempo, ma la scelta è stata suggerita dal fatto che lui – a differenza degli altri – è di gran lunga il meno ignoto dei personaggî di questo periodo. A questa ragione, la quale – mi rendo conto – potrà non risultare molto significativa a chi di teologia s’interessa forse solo occasionalmente e solo marginalmente, va aggiunto il fatto che Tommaso fu un geniale catalizzatore delle posizioni a lui precedenti: ben più di un semplice “ripetitore”, le sue formulazioni portavano però il sapore delle più significative di tutte le voci a lui precedenti.

L’altro elemento dell’ultima notizia (quella sulla morte di Tommaso) è molto importante: Tommaso era diretto a un concilio. È vero: i concilî medievali della chiesa latina erano molto cambiati rispetto a quelli che si celebravano fino alla tarda antichità, ma ciò non toglie che ancora si respirasse un fermento volto a implementare, ricomprendere e difendere il patrimonio della fede ricevuta e da trasmettere. I concilî non erano più presieduti da un Imperatore, anzi il Vescovo di Roma accentrava via via sempre più decisamente il controllo e il potere conciliare nelle proprie mani: così si garantiva, (relativamente) al riparo da ingerenze secolari, la concordia tra le chiese e l’armonia nel professare la fede.

Naturalmente le cose non andavano così lisce: qui non ci è dato di riprendere questi fili che per sommi capi, ma è di capitale importanza tenere a mente che la costituzione occidentale del Sacro romano impero, destinato – dopo il tramonto delle dinastie franche – a diventare il Sacro romano impero germanico, ha implicato un sempre più pesante coinvolgimento del potere secolare nelle decisioni ecclesiastiche. A questa “galassia politico-religiosa” appartengono anche i presupposti di quella “collaborazione” instauratasi (in qualche modo) naturalmente, tra curie vescovili e “braccio secolare”: quella nella persecuzione degli eretici. Ma alla stessa “galassia politico-religiosa” fanno riferimento pure quei conflitti d’interessi e di autorità che rientrano nel nome di “lotta per le investiture” (e l’apice di questo scontro si ebbe negli anni ’70 dell’XI secolo, tra Gregorio VII ed Enrico IV).

Ma non perdiamo il bandolo della matassa: i concilî. Mano a mano che il ricorso all’autorità conciliare guadagnava autorevolezza e stima agli occhî di quanti la invocavano e/o ne riconoscevano i verdetti, andò ponendosi una questione sull’origine e sugli eventuali limiti di questo enorme potere decisionale: da dove veniva? Chi poteva servirsene? E, viceversa, chi non poteva? E poi la grande e terribile domanda: conta più la decisione di un Papa o quella di un concilio? È vero, s’era deciso che un concilio non poteva essere convocato se non da un Papa, e anche che esso restava validamente attivo fintantoché al Papa fosse piaciuto… Ma che si sarebbe dovuto fare in caso di un Papa eretico? Chi avrebbe dovuto deporlo? «Un concilio, certo!»: fu l’opinione comune, non priva di una qualche ragionevolezza. Ma quale Papa convocherà mai un concilio che lo deponga?! Del resto, la complessa faccenda della lotta per le investiture aveva portato a situazioni in cui gli imperatori deponevano i papi che non andavano loro a genio, così come pure gli antipapi. Il quadro diventava sempre meno gestibile per via di un intreccio inestricabile d’intrighi politici, questioni di fede e questioni di disciplina: basti ricordare che agli inizî del XV secolo s’era prodotta una paurosa frattura disciplinare, nella Chiesa d’Occidente, in cui si contrapponevano contemporaneamente un papa e due antipapi!

E non era facile distinguere i “buoni” dai “cattivi”: basti pensare che anche i santi di quell’epoca si dividevano tra le partigianerie dell’uno e dell’altro contendente al soglio pontificio. Così vi fu un Concilio (attenzione, un Concilio ecumenico!), convocato nel 1414 a Costanza dall’Imperatore Sigismondo. Le apparenze andavano salvate, e così l’Imperatore costrinse il Papa romano (che si chiamava – tenetevi forte – Giovanni XXIII!) a convocare il Concilio che lo avrebbe deposto. Sorvoliamo sui dettagli, degni di un romanzo (ed effettivamente Balzac vi dedicherà due gustose novelle…), e vediamo che effettivamente il Concilio aveva avuto “paura” di deporre il Papa da cui era stato convocato. Soluzione: il Concilio depone i due antipapi, il Papa abdica da sé. Restava da fare un Papa, ma che conclave convocare, senza la morte del Papa? Niente conclave: a fare il Papa, questa volta, ci pensa il Concilio – e Martino V fu eletto a condizione che avesse ratificato gli atti e i decreti del Concilio. Naturale: dopo che s’era visto il Papa che convocava il Concilio che lo avrebbe deposto, volete che avremmo visto anche il Papa che non riconosceva il Concilio che – con prassi insolita, è vero – lo aveva eletto?

È un po’ complicato, è vero, ma non è essenziale “capire” fino in fondo cosa è accaduto in quel concilio: quello che ci serve assolutamente è farci un’idea dello stato di grande confusione in cui la cristianità occidentale declinava dall’undicesimo secolo in poi. Certo, ci si trova un tantino imbarazzati (per non dire scandalizzati) quando si legge che tra le quarantuno proposizioni di Lutero che la Exurge Domine di Leone X (1520) condanna ce n’è una che dice che «è contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati» (la 33); a questo punto del nostro percorso, però, dovremmo avere qualche elemento in più per giudicare il contesto dell’epoca.

Per esempio, visto che questa proposizione parla proprio di “bruciare” (comburi) gli eretici, che ne pensava Lutero della nostra parabola? Impossibile che non l’abbia commentata! Infatti vi si è richiamato molte volte. Ma qui – su Lutero – è indispensabile liberare il campo da certi pregiudizî che anche di recente una propaganda scriteriata mette in circolo (come in molti punti del film “Luther” di Eric Till, 2003): qui ci basta ricordare che non è vero che Lutero fu il primo a tradurre la Bibbia in tedesco (né che la sua versione sia integralmente opera propria), ma soprattutto dev’essere chiaro che non è vero che il papato romano costituiva la somma di tutti gli avversarî di Lutero. Consiglio di fare lo sforzo di inquadrare la sua figura e la sua opera in un’ottica “della lunga durata”: Pietro Valdo e Pietro di Bruis, Francesco d’Assisi e Dolcino da Novara, Martin Lutero, Thomas Müntzer ed Erasmo da Rotterdam furono solo alcuni che tentarono (con esiti diversi) di dare un loro suggerimento a quell’istanza di riforma di cui la Chiesa si mostrò sempre bisognosa.

Focalizziamo ora brevemente due di questi nomi: Thomas Müntzer e Martin Lutero. Due “riformatori” – s’imparerebbe su qualsiasi manuale appena passabile – quindi, aggiungeremmo, due uomini animati dai medesimi ideali, protesi verso i medesimi obiettivi, scagliati contro i medesimi nemici. È proprio così?

In effetti Müntzer viene spesso descritto come “luterano”, ed è vero che conobbe personalmente Lutero intorno agli anni della condanna che questi ricevette da Roma. Ma sentiamo cosa Müntzer dice di sé: «Ah, come sono sodi i frutti, e come sono maturi gli eletti! Ecco il tempo della raccolta. Ecco perché Dio stesso mi ha preso a servizio per la sua mietitura. Ho affilato la mia falce, perché i miei pensieri aspirano con tutta la loro forza alla verità, e le mie labbra, la mia pelle, le mie mani, i miei capelli, la mia anima, il mio corpo e tutto il mio essere maledicono gli empî» (Ecrits théologiques et politiques, lettres choisies, p. 63). Il “distruttore degli empî” – perché amava firmarsi così, oltre che “rigoroso servitore di Dio” – pareva avere le idee molto chiare sulla distinzione da fare tra grano e zizzania, tanto che di quelli che apostrofa come “difensori degli empî” scrive: «essi non vogliono dar seguito al testo di Matteo (capitolo 13, versetti 47-50) concernenti la separazione degli empî e degli eletti. Essi se lo immaginano secondo l’antica immagine del flagello e della bilancia: gli angeli, armati di lunghe picche, separeranno i buoni dai malvagî nel giudizio ultimo. Questo è beffarsi dello Spirito Santo, penso io. Essi dicono impudentemente che Dio non rivela i suoi giudizî a nessuno» (p. 108).

Come si vede, la frase di Lutero che è stata condannata nella bolla di Leone X non era uno strale di polemica esclusivamente anti-romana: Müntzer, del resto, includeva Lutero nel numero dei difensori degli empî – ai suoi occhî egli aveva, esattamente come Roma, la colpa di non voler riconoscere che quella degli “angeli”, nella parabola, è un’immagine usata per indicare quanti si sarebbero riconosciuti “investiti” di un dono carismatico atto a risolvere la fastidiosa faccenda della zizzania (perché «un empio non ha il diritto di vivere se pone ostacolo ai giusti»).

Ma chi dovrebbe discernere l’autenticità di questo carisma? Un bel problema: è però probabile che se degli uomini si sobbarcassero all’incombenza di dover estirpare tutta la zizzania del campo che è il mondo si arriverebbe in poco tempo alla fine (nello scorso secolo ci siamo stati vicini più di una volta). Lutero, invece, era teologo troppo acuto, esegeta troppo fine e spirito troppo tormentato per lanciarsi in tanto grossolane imprudenze: «Il sonno – scrive Lutero a pochi mesi dalla morte con riferimento a un dettaglio importante della parabola – è quando le persone sono sicure o quando predicano con assiduità e non prestano attenzione al nemico. Così, noi predichiamo oggi con serietà e applicazione, ma non possiamo vedere, né sapere, se quelli che ci ascoltano accettano il Vangelo o no. […] così pure io dormo, vale a dire che, quando ho predicato, non posso né devo giudicare se chi ascolta la mia predica è un discepolo e un allievo integro o no» (Predigt am 5. Sonntag nach Epiphaniä, in Eisleben gehalten, 7 febbraio 1546. La questione del Canone di Lutero l’avevamo già affrontata qui).

Così, da un lato Müntzer accusava Lutero di essere come i teologi cattolici nel non voler riconoscere che dovrebbero essere gli uomini a decidersi una buona volta ad attuare il giudizio di Dio; dall’altro Lutero accusava Müntzer di essere come i cattolici nella pretesa di costruire una Chiesa pura e perfetta al di qua dell’orizzonte escatologico (ossia senza guardare con fiducia all’intervento finale del Signore). Su questo versante la colpa dei cattolici sarebbe stata, a sentire Lutero, nel fuggire la mondanità per creare “uno spazio esistentivo” (diremmo con terminologia moderna) in cui mimare i gesti di una chiesa quale sarà solo alla fine dei tempi – in pratica si riferiva a monasteri, clausure ed eremitaggî varî.

In conclusione, che dire? I brani che ho citato farebbero pensare semplicemente a un “Lutero pacifista” (parola orribile che anche lui rigetterebbe con sdegno), ma dobbiamo ricordare che quando nella prima metà del 1525 Müntzer cavalcò le crescenti rivolte contadine, aiutato anche dall’attivismo della moglie (eh, sì: anche in questo Lutero s’è lasciato precedere almeno da un altro prete cattolico dissidente!), Lutero incitò con parole di piombo infuocato i principi tedeschi a sterminare i contadini insorti (chiamati perfino “diavoli d’inferno”). Fu così. Müntzer fu catturato mentre fuggiva, torturato e decapitato dai nobili tedeschi; Lutero trovò invece la protezione di Federico III di Sassonia, e per le sue posizioni spesso (anche se non sempre) dubitative e aspiranti alla moderazione non fu impossibile sottrarlo a ogni rogo.

È così: in ogni santorale (libro con vite dei santi o con testi per le memorie liturgiche dei santi) l’accesso “in paradiso” è influenzato da quale “santo” si trova in terra.

Foto: Lucas Cranach, Giudizio universale, part.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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