Divina misericordia: “Festa della fede in Gesù risorto che perdona tutto”
"Se abbiamo la fede – esorta l’arcivescovo Valentinetti -, non dobbiamo avere paura di nulla. Non dobbiamo avere nessun timore. Nessuna situazione difficile è impossibile da affrontare. Molte volte noi pensiamo che la fede sia chiedere ai miracoli, che accadono qualche volta, ma è soprattutto questa forza interiore che ci fa aderire a questo Signore, che ce lo fa amare, perché Lui ci ha amati per primo ed è pronto ad usarci misericordia"

Nella domenica in Albis, nonché festa della Divina Misericordia tanto cara a Papa Francesco – del quale ieri sono state celebrate le esequie – anche la Chiesa di Pescara-Penne ha celebrato questo speciale “festa del perdono”, con la santa messa presieduta dall’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti nel Santuario della Divina Misericordia a Pescara.
Una liturgia eucaristica la cui omelia è stata arricchita da un preambolo, con una confidenza rivelata ai tanti fedeli dal presule ispirato dal Vangelo al centro della seconda domenica di Pasqua (Gv 20,19-31): «Voi capirete – esordisce l’arcivescovo Valentinetti – che sono molto affezionato a questa pagina del Vangelo, perché il mio nome si identifica con quell’apostolo che non voleva credere. Io ce la metto tutta per credere, ma l’apostolo mi ha insegnato che ci devo mettere le mani anch’io. Poi sono di Ortona, dove si conservano le reliquie dell’apostolo Tommaso. Anzi, vi esorto ad andare in pellegrinaggio perché quelle dita che forse non hanno toccato, ma che si sono appena appena allungate verso le piaghe, stanno in quella tomba. Io le ho viste quando abbiamo fatto la ricognizione scientifica del corpo di San Tommaso. Mi piaceva cominciare la mia riflessione con questo accenno affettivo».
Quindi l’ulteriore approfondimento di questi importante passo biblico: «Il capitolo del Vangelo che è stato proclamato è l’ultimo del Vangelo di Giovanni – ricostruisce l’arcivescovo di Pescara-Penne -. Avete ascoltato il finale che la dice lunga… “Molte cose fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il figlio di Dio. Perché credendo abbiate vita nel suo nome”. Il capitolo 21, per chi ha dimestichezza col Vangelo, ma spero che la verifica sia semplice, è stato aggiunto qualche secolo dopo per “mettere a posto” alcune situazioni che nella Chiesa primitiva si stavano verificando. “Ecclesia semper reformanda”, ovvero la Chiesa è sempre in fase di riforma. Mai come in questo tempo, la Chiesa è in fase di riforma. Ma dunque questo capitolo è stato scritto per mettere il punto fondamentale su tutto quello che era stato redatto dall’evangelista Giovanni, cioè la dimensione della fede. “Tutto è stato scritto perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”. Se avrete pazienza di rileggere il Vangelo di Giovanni, vi accorgerete che i vari personaggi che si susseguono all’interno del Vangelo, sono alla ricerca della fede. Pensate a Nicodemo, pensate alla samaritana, pensate al centurione e via di questo passo. Pensate anche ai discepoli e pensate pure a questo “poveretto” che si chiamava Tommaso».
A quest’ultimo monsignor Valentinetti ha dedicato una riflessione a parte: «Chiamato Didimo – ricorda l’alto prelato -, ma perché? Nel senso di “gemello”? No, vuol dire “doppio”. È un uomo che ha degli alti e dei bassi. È un uomo che quando Gesù vuole andare in Giudea per predicare e gli altri sono titubanti, dice “Andiamo anche noi a morire con Lui”. Poi, dopo qualche capitolo del Vangelo, quando Gesù dice “Ecco, vado al Padre, vado a prepararvi un posto”, già lì si raffredda e dice “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”. E Gesù risponde “Io sono la via, la verità e la vita”. E poi l’episodio che abbiamo ascoltato. Gesù, la sera di Pasqua, appare ai discepoli e Tommaso non c’è, ma perché? Ha paura. Aveva detto tante cose belle e poi scappa. Gli altri gli dicono “Guarda che l’abbiamo visto!”. E lui insiste ancora, “Se non metto le dita al posto dei chiodi e non metto la mano sul fianco, io non ci credo”. E qui Tommaso interpreta tutta la storia dell’umanità».
Da qui gli interrogativi rivolti a tutti i credenti: «Quante volte noi facciamo fatica a credere? – si domanda monsignor Tommaso Valentinetti -. Quante volte gli uomini di tutte le generazioni hanno fatto fatica a credere? O quante volte si vanno cercando manifestazioni particolarissime per poter credere? No. L’unica possibilità che ci è data, in forza del battesimo, in forza della cresima, in forza dell’Eucarestia, in forza dei sacramenti, è che la nostra vita sia un’adesione piena e totale a quel Gesù che è Signore e Dio. È la più alta professione di fede del Nuovo Testamento. Nemmeno nelle lettere di San Paolo, Gesù viene definito “Signore e Dio”. Ma Gesù è Signore e Dio. “Crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. E perché credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Quale vita? La vita fisica, ma soprattutto la vita spirituale, la vita dell’interiorità, la vita della fede. Quella vita che ci fa incontrare, così come l’autore del libro dell’Apocalisse, questo Signore vestito di una veste straordinaria, in mezzo a sette candelabri, con un abito lungo fino ai piedi cinto al petto con una fascia d’oro. Una visione straordinaria, bellissima. È la visione del Tabor, della trasfigurazione. E dice, a chi lo guarda, “Non temere”».
Partendo da questo presupposto, il presule ha rivolo un incoraggiamento ai fedeli: «Se abbiamo la fede – esorta l’arcivescovo Valentinetti -, non dobbiamo avere paura di nulla. Non dobbiamo avere nessun timore. Nessuna situazione difficile è impossibile da affrontare. Molte volte noi pensiamo che la fede sia chiedere ai miracoli, che accadono qualche volta, ma è soprattutto questa forza interiore che ci fa aderire a questo Signore, che ce lo fa amare, perché Lui ci ha amati per primo ed è pronto ad usarci misericordia. “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”. Ci plasma, ci modella a sua immagine, come diceva Papa Francesco, “perdonando tutto e perdonando sempre”. La festa della Divina Misericordia, che la Chiesa oggi celebra, è proprio questa fede robusta che si invera di fronte a Gesù risorto, il quale dona lo Spirito Santo. Soffia sui discepoli ed emette lo Spirito. La seconda volta sopra la croce, quando muore, emette lo Spirito. Poi ai discepoli emette lo Spirito e infine, il giorno della Pentecoste, sarà lo Spirito per tutta la Chiesa e per tutta l’umanità».
Infine una richiesta particolare dell’arcivescovo di Pescara-Penne, visti i giorni complessi e determinanti che attendono la Chiesa, rappresentata dai suoi cardinali elettori: «Lo Spirito – invita l’arcivescovo – lo dobbiamo invocare particolarmente in questo tempo. Fra qualche giorno, come sapete, si aprirà un Conclave. Di solito io uso dire una battuta… Il posto dove, di solito, lo Spirito Santo riesce a sparigliare le carte è il Conclave. Ci riesce molto bene. Ci è riuscito finora e continuerà a riuscirci, nel Suo nome, nel nome di Gesù. Amen».
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