Operatori di giustizia: “Accompagnate le ferite delle persone, anche se la sentenza è pesante”
"Il Tribunale metropolitano – conferma don Maurizio Buzzelli, presidente del Tribunale ecclesiastico metropolitano di Pescara-Penne -, adempie fedelmente la riforma contenuta nel menzionato Motu Proprio circa la possibilità, la prossimità, la celerità dei tempi processuali e l'accoglienza riservata ai fedeli. Avendo sempre come finalità la cura delle anime, è importante dare la testimonianza anche in questa sede della collaborazione fraterna tra tutti gli operatori di giustizia coinvolti nell'attività del Tribunale"

Non è stata un’inaugurazione come le altre quella dell’anno giudiziario 2025 del Tribunale ecclesiastico metropolitano di Pescara-Penne che, nell’anno giubilare, ha scelto la cornice del Santuario di San Nunzio Sulprizio a Pescosansonesco (Pescara) per invitare avvocati e canonisti ad una giornata lontana dal solito taglio formale e istituzionale, ma più intima e spirituale. Un appuntamento, organizzato in collaborazione con l’Associazione canonistica diocesana di Pescara, dall’Unione giuristi cattolici e dall’Ordine degli avvocati di Pescara, che ha offerto a decine di giuristi la possibilità di accedere al sacramento della confessione e alla partecipazione alla santa messa, presieduta dall’arcivescovo di Pescara-Penne noché moderatore del Tribunale ecclesiastico diocesano monsignor Tommaso Valentinetti, potendo lucrare l’indulgenza plenaria.
LA LECTIO DIVINA DELL’ARCIVESCOVO VALENTINETTI

Ed è stato proprio il presule a curare il momento centrale della giornata, una lectio divina sul tema “Giustizia e misericordia”: «Parto con un assioma che sicuramente conoscete, perché è famosissimo – esordisce l’arcivescovo di Pescara-Penne -, “Il massimo della giustizia è la misericordia e il massimo della misericordia è la giustizia”. I due poli si fronteggiano, ma l’uno senza l’altro è mancante e l’altro senza l’uno è perdente. Perché coniugare giustizia e misericordia se, teoricamente parlando, da un punto di vista religioso, potrebbe essere non dico facilissimo – visto che esiste un Tribunale ecclesiastico che deve giudicare e quindi deve fare giustizia – da un punto di vista laico che cosa si muove dentro l’amministrazione della giustizia oggi, in Italia e nel mondo, è complicato da potersi dire. Allora io parto da un concetto “rabbinico”, che riguarda l’evento della creazione. Perché parto da questo concetto? Perché in realtà i rabbini hanno sempre pensato che quando Dio ha creato, quando Dio ha fatto tutte le cose – naturalmente siamo nella sfera biblica teologica, non siamo nella sfera scientifica, voi vi capite bene – Dio ha fatto “tzimtzum”, cioè si è ritirato per fare spazio a quello che Lui ha creato. “E Dio disse“, non Dio lavorò, non Dio manipolò, Dio disse, nell’emettere la parola, perde qualche cosa di se stesso per creare ciò che è realizzato. E questo l’ha fatto anche quando ha creato l’uomo e la donna. Però, in questo ritirarsi di Dio, all’uomo e alla donna ha posto un limite… “Tutto quello che vedete è vostro, ma dell’albero della vita – la conoscenza del bene e del male, guarda caso – non ne dovete mangiare”. Ha posto il limite su cui, in realtà, la libertà dell’uomo del fare o non fare determinate cose, si doveva arenare, si doveva misurare, si doveva chiaramente mettere in relazione, mettere in discussione. Qual è la motivazione vera per cui c’è questo limite? La motivazione più profonda non è assolutamente “Stiamo a vedere che fanno, perché se commettono peccato io li punisco”, cosa che purtroppo è capitata, ma la limitazione è messa perché – in realtà – si potesse creare giusto rapporto fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e la donna, fra l’uomo e tutti gli esseri umani che venivano dopo di loro. Perché, profondamente, il primo concetto di giustizia che viene fuori da questo discorso, è avere dei giusti rapporti con Dio e avere dei giusti rapporti con tutto ciò che è stato creato. L’uomo, purtroppo, non ha avuto la capacità di avere il giusto rapporto. Il serpente ha ingannato la donna, la donna ha ingannato il serpente e i giusti rapporti sono saltati, perché le tre dimensioni della trasgressione, il piacere, il possedere e il potere, che sono poi le tre trasgressioni a cui viene sottoposto anche Gesù, si racchiudono in quella immagine di quella mela che era bella a vedersi (il possedere), buono a mangiarsi (il piacere), capace di dare sapienza (il potere). Allora lì i giusti rapporti si sono infranti. Si è infranto il giusto rapporto tra la realtà della natura, la realtà delle persone, la realtà del rapporto tra l’uomo e Dio. Per cui ciò che aveva fatto il Signore, facendo “tzimtzum” e mettendo l’uomo in condizione oggettivamente bella, a questo punto il “tzimtzum” non positivo, ma negativo di ritirarsi dalla realtà del paradiso terrestre, l’ha fatto anche l’uomo. E da questo momento in poi, la grande ricerca biblica – perlomeno come si evince dalla Sacra Scrittura o come si evince da tutti i testi dell’Antico Testamento – è che l’uomo debba sempre ricercare il giusto rapporto con Dio e che l’uomo debba ricercare il giusto rapporto con l’altro uomo».
Da qui la definizione di giustizia: «È cercare il giusto rapporto – spiega l’arcivescovo Valentinetti -. È chiaro che dentro la giustizia, quando c’è una discussione, c’è qualcuno che deve mettere le regole e nell’Antico Testamento le regole non sono sempre la misericordia, sia ben chiaro, ma molto spesso prevale anche la dimensione della misericordia. Porto un altro esempio. Come entra Dio nel giusto rapporto con il capostipite del popolo di Israele, con Abramo? Quando lo chiama e gli fa una promessa. Ma la dimensione del rapporto di Abramo con tutta la sua parentela è una dimensione dove anche lui, oltre a ricercare i giusti rapporti con Dio, deve ricercare i giusti rapporti con la sua stessa stirpe, il suo omologo, che nella fattispecie è Lot. Quando decide di dividersi, potevano combattere, potevano scontrarsi, potevano mettersi l’uno contro l’altro, Abramo che cosa fa? Preferisce avere i giusti rapporti. Alle volte il giusto rapporto significa anche percorrere strade diverse, ma non strade confliggenti. Le strade di Abramo e le strade di Lot potevano diventare strade confliggenti. E lo erano già diventate, ma in realtà a quel punto tutto si chiarisce. Ma la dimensione migliore per creare il giusto rapporto, ed entriamo in un tema caro alla giornata che stiamo celebrando, è il rapporto giubilare. Probabilmente, lo sapete, il Giubileo della Chiesa Cattolica nasce nel 1300, ma la dimensione giubilare della Sacra Scrittura è molto molto antica. Il libro del Levitico ci parla di anno giubilare ogni 25 anni, o ogni 50 anni, ma ogni 25 anni. E che cosa accadeva in quest’anno giubilare? Accadeva la restaurazione del giusto rapporto tra le persone e il giusto rapporto con Dio. Perché, pensate, gli schiavi che erano stati acquisiti nel frattempo, dall’anno precedente al susseguente, venivano rimandati a casa, venivano liberati. Allo schiavo veniva quindi condonata la pena. Ecco che appare la dimensione della misericordia. Poi il servo veniva affrancato, il bestiame che era stato rubato veniva restituito e, udite udite, la terra che era stata comprata dal vicino o dall’altro venditore veniva restituita. Perché la terra non apparteneva all’uomo, apparteneva a Dio e dunque si poteva comprare solo la somma dei raccolti e non tutta la terra. Se si comprava più vicino all’anno giubilare successivo, il prezzo era di meno. Se si comprava lontano dall’anno giubilare, il prezzo era maggiore. Poi capite che questa è una dimensione di logica di rapporti di giustizia che veramente mette le mani su situazioni molto particolari e impegnative. E soprattutto induce a pensare che questo rapporto tra giustizia e misericordia non è solo un fatto di carattere religioso, ma è un fatto da esplorare. E soprattutto, nella logica del nostro tempo, è sempre più da verificare con i fatti cosa realmente può essere una pena. Quest’ultima, com’è stato già detto, non può essere mai di carattere vendicativo, ma sempre di carattere “medicinale”».

A tal proposito, monsignor Valentinetti ha fatto riferimento ad un recente e drammatico fatto di cronaca: «Mi domando – osserva l’alto prelato -, quei due fratelli (Gabriele e Marco Bianchi) condannati per l’omicidio di quel ragazzo (Willy Monteiro Duarte) a colpi di arti marziali, che alla fine dicono “Pagheremo, ma non siamo dei mostri”. Lo dicono solo per convenienza? Lo dicono solo perché vogliono, in qualche modo, appellarsi alla possibilità di uno sconto di pena? O lo dicono perché, in realtà, c’è un’esigenza che va un po’ al di là di quello che può essere una pena, secondo il codice, giustamente inflitta? Entrando nel carcere di San Donato a Pescara molto spesso, perché – grazie a Dio – questa frequentazione mi è sempre stata di grande attenzione, lì bisognerebbe veramente sul serio ragionare su che cos’è la pena e su che cosa comporta la pena, fino ad arrivare a capire dove sono i limiti dell’umano che devono essere rispettati. Perché vi assicuro, io ho messo le mani su alcune situazioni in cui c’era qualche detenuto che aveva fatto richiesta di essere ascoltato dalla Direzione per 30-40 volte, venendo sempre respinto. Qui non siamo nella giustizia, ma non siamo nemmeno nell’umano. Allora la riflessione si pone, perché i peccati e le trasgressioni sono sempre avvenute. Accadevano anche al temo di Gesù, che si scontra inevitabilmente con le trasgressioni. Anzi, c’è qualcuno che gliele pone davanti».
Da questo punto in poi, l’arcivescovo ha concentrato la sua lectio divina sui testi del Nuovo Testamento: «Per capire che cosa Gesù intende per giustizia e per misericordia – aggiunge monsignor Valentinetti -, c’è quella famosa frase di Gesù “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non siete adatti per il Regno dei cieli”. Questa frase si trova nel capitolo 5 di San Matteo, ma ci dice sostanzialmente che Gesù pone una differenza, che potrebbe essere quella che chiamiamo comunemente “differenza cristiana”. Cioè, gli scribi e i farisei avevano una giustizia, avevano un modus vivendi che si era cristallizzato nel tempo, così come i nostri codici si cristallizzano nel tempo. Lo stesso Codice di diritto canonico si cristallizza nel tempo e si cambia nel tempo, ma certamente c’è un “corpus” di norme che va in qualche modo rispettato. Gli scribi e i farisei avevano questo corpus, che prevedeva delle pene e delle sanzioni, ma Gesù pone un problema. Questo corpus va superato, non può rimanere “occhio per occhio dente per dente”. Ma il peggio era che le pene erano sempre sovrastimate e sempre non calibrate sulla realtà della vita. Caso estremo di questa situazione è il famoso episodio dell’adultera. Il peccato c’è, la trasgressione c’è, la legge è stata infranta. La donna ha commesso adulterio, è stata accolta in flagrante adulterio. La pena è stabilita, chi viene colta in flagrante adulterio deve essere lapidata. Poi, questa è una domanda mia, perché la donna sì e l’uomo no? Detto questo, qual è l’atteggiamento di Gesù di fronte all’adultera? Facciamo finta che non è successo niente? Facciamo finta che non hai fatto nulla? Facciamo finta che la colpa non c’è? Non è questo l’atteggiamento, ma non solo perché le dice “Donna, nessuna ti ha condannata, nemmeno io ti condanno. Vai e d’ora in poi non peccare più”. Cioè, non commettere più il reato. È come se uno dicesse a quei due fratelli “nessuno ti ha condannato, nemmeno io ti condanno, però adesso non lo fate più”. Ci laviamo le mani e ci consoliamo di questa cosa. No, il problema è diverso, ovvero è quella parte intermedia dove Gesù interroga coloro che volevano lapidare la donna, se essi stessi erano in grado di applicare la giustizia, “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. E qui il rapporto comincia a diventare serio, perché se siamo partiti da un atto creazionale dove la giustizia è il giusto rapporto fra Dio e gli uomini, oggi la grande questione che dobbiamo affrontare è: siamo realmente tutti uguali di fronte alle questioni dei reati e siamo tutti capaci e degni di amministrare una giustizia? Non tanto perché giudici, ma quanto perché coinvolti nel creare situazioni di giustizia di misericordia. Allora può diventare vera la seconda parte del Vangelo di sabato 14 marzo, cioè “Se uno ti dà uno schiaffo su una guancia, tu porgigli anche l’altra; se uno ti prende il mantello, tu dagli anche la tunica”. Ma, a quel punto, è un surplus di creazione, di azioni portate alle estreme dizioni di paragone, ma sicuramente per creare condizioni di diversità e di differenza cristiana. Ora, se il massimo della giustizia è la misericordia e il massimo della misericordia è la giustizia, voi lo capite da voi stessi quanto il rebus resti comunque aperto».
Infine le conclusioni: «Ma come ultimo passaggio – precisa il presule -, ricordatevi la storia dei due “fratelli famosi”, dei quali uno scappa e l’altro rimane a casa. Chi è che ha capito il vero rapporto con questi figli è il padre, il quale ha capito il giusto rapporto con quello che è scappato di casa e il giusto rapporto con il figlio grande, quando quest’ultimo non vuole entrare alla festa… “Figlio, tu sei sempre con me, tutto quello che è mio è tuo, ma bisognava far festa”. Domanda, quel figlio è entrato alla festa? La parabola resta aperta, non si sa. Questo è il nostro compito, avere il coraggio di entrare alla festa, quando succede che sicuramente abbiamo un ammasso di trasgressioni e un ammasso di prevaricazioni, dove dobbiamo domandarci fino a che punto non c’è la nostra responsabilità e dove avere il coraggio di metterci le mani dentro. L’altra domanda di quella parabola è – non so se vi siete accorti, ma in quella storia si parla di un padre e di due figli – “E la mamma?” La ferita… Se quei due figli hanno agito, tutti e due peccatori, la ferita e quante ferite, il tribunale ecclesiastico, e quante ferite, il tribunale civile, e quante ferite dove occorre mettere le mani! Allora forse sì, riusciremo a capire quanto è importante il massimo della giustizia nei confronti della misericordia e il massimo della misericordia nei confronti della giustizia. E forse, come operatori di giustizia sia ecclesiastici e sia civili, avere il coraggio – anche quando la sentenza è pesante e faticosa – di accompagnare le ferite che queste persone comunque si portano dietro. Questo, forse, ci fa capire quanto è importante coniugare questi due elementi».

Una lectio divina, quella tenuta dall’arcivescovo Valentinetti, che non ha lasciato indifferenti i canonisti e gli avvocati presenti, a partire dal presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani di Pescara: «Nel sentire comune, molto spesso – constata l’avvocato Francesco Grilli -, si ritiene che la giustizia sia una sorta di vendetta personale. Ma quest’ultima conduce all’errore di prospettiva di voler rinvenire soltanto in questo tipo di ingiustizia la riparazione effettiva del danno subito. Molto spesso, amaramente, le stesse persone offese si rendono conto che sentenze, pur severe, non riparano effettivamente. Quindi il percorso di riconciliazione, che non va oltre la giustizia, ma compie di più la giustizia insieme alla sentenza di condanna, è un percorso riparativo che sicuramente fa bene ai rapporti personali e alla società. Quindi noi, come operatori del diritto cattolici, vogliamo fare un’opera culturale in questa dimensione».

Sulla stessa linea anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Pescara: «C’è il titolo di un incontro, a cui ho partecipato, che mi è piaciuto molto, “Misericordia: superamento del diritto o dimensione della giustizia? – cita l’avvocato Federico Squartecchia -. E mi pare che questo sia un tema fondamentale. Cioè, se il giudice è misericordioso, cosa fa? Sta superando il diritto, perché il concetto di misericordia è un concetto giuridico? O forse, più correttamente, quella è una dimensione della giustizia. Quindi quest’ultima va ispirata anche alla misericordia che può riguardare, per esempio nell’ambito penale, la commisurazione della pena. Aspetto su cui ci concentriamo poco. Oggi la società è aggressiva e la “pancia” dice un po’ a tutti che bisogna mettere in galera il malcapitato di turno, senza magari portarsi il problema che può riguardare anche le ragioni per le quali, tante volte, l’uomo si trova di fronte alla scelta tra commettere un reato o un atto di recito e non farlo. Non è così scontato».
IL TRIBUNALE ECCLESIASTICO METROPOLITANO DI PESCARA-PENNE NEL 2024: 67 CAUSE TRATTATE

A margine del momento più spirituale, non è mancato il report sul lavoro svolto dal Tribunale ecclesiastico metropolitano di Pescara-Penne. Un organo giudiziario, quest’ultimo, che opera dal 2018 come previsto dal Motu proprio di Papa Francesco “Mitis Iudex Dominus Iesus”. Un atto giuridico, quest’ultimo, che ha velocizzato l’iter per il riconoscimento della nullità matrimoniale, ora ottenibile anche in meno di un anno: «Il Tribunale metropolitano – conferma don Maurizio Buzzelli, presidente del Tribunale ecclesiastico metropolitano di Pescara-Penne -, adempie fedelmente la riforma contenuta nel menzionato Motu Proprio circa la possibilità, la prossimità, la celerità dei tempi processuali e l’accoglienza riservata ai fedeli. Avendo sempre come finalità la cura delle anime, è importante dare la testimonianza anche in questa sede della collaborazione fraterna tra tutti gli operatori di giustizia coinvolti nell’attività del Tribunale».
Da qui il grande lavoro svolto dall’organismo giuridico diocesano anche nello scorso anno: «All’inizio del 2024 erano pendenti 33 cause – illustra don Buzzelli -, tutte trattate con procedura ordinaria. Durante lo stesso anno, sono state introdotte 34 nuove cause – tutte di procedura ordinaria e una riassunzione, ovvero c’è stata un’archiviazione a cui è seguita una richiesta di riapertura. Per cui le cause trattate durante l’anno sono state 67, delle quali 30 decise in prima istanza e 2 archiviate. Invece le sentenze pubblicate nel 2024 sono state 35, di cui 2 del 2021, 4 del 2022, 26 del 2023 e 3 del 2024. L’attività giudiziaria svolta nell’anno 2024 conferma sostanzialmente l’andamento dell’anno precedente».
Tra le cause decise 16 hanno beneficiato del patrocinio gratuito del Tribunale, in base alla documentazione fiscale presentata dagli utenti. Tra le motivazioni che hanno avviato le varie cause, è interessante notare come il capo di nullità maggiormente dichiarato è il grave difetto di discrezione di giudizio (canone 1095 paragrafo 2): «Che ricorre 29 volte – precisa presidente del Tribunale ecclesiastico metropolitano di Pescara-Penne -, di cui 26 sono state pronunce affermative e 3 negative. A fondamento di tale motivo di nullità, sussistono la mancanza di maturità umana e psicologica, nonché la carenza di libertà nella scelta riconducibili a dinamiche interiori o a condizionamenti esterni e, in ultimo, la presenza di intenzioni non congrue con aspetti essenziali alla Dottrina della Chiesa sul matrimonio. Inoltre, l’incapacità per causa di natura psichica ricorre una volta con esito negativo. I restanti capi riguardano l’esclusione dell’elemento e delle proprietà essenziali del sacramento del matrimonio. Nello specifico l’esclusione dell’indissolubilità, che ricorre quattro volte con una pronuncia negativa e tre affermative, un’esclusione della prole affermativa e un’esclusione della fedeltà negativa. Una sola causa è stata trattata per simulazione totale, decisa affermativamente».

E un contributo importante alla riuscita di questo importante lavoro, giunge dall’Associazione canonistica diocesana di Pescara: «Mi piace sottolineare – afferma il presidente Antonio Iaccarino – quello che facciamo qui nel Tribunale ecclesiastico, un servizio di accoglienza. Lo realizziamo attraverso un servizio di consulenza che offriamo a coloro che vengono a bussare alle porte della diocesi, alle porte del Tribunale. Lo facciamo gratuitamente perché quell’accoglienza ecclesiale, che è bene che sentano nelle parrocchie, la possano sentire anche in questa esperienza. L’invito che rivolgo a tutti i giuristi del Foro civile è a cooperare con questo servizio di consulenza diocesana, qualora le circostanze offrissero l’opportunità per le parti di aprirsi anche del percorso in un tribunale ecclesiastico, perché siamo a disposizione in questa cooperazione per la persona».
Rispondi