L’omaggio a Salvo D’Acquisto, «un giovane che ha servito Dio»
«Sono gesti che ci fanno capire l’umanità, quella vera che viene da Gesù. “Io muoio cento volte, cento volte rinasco. Dio è con me, io non ho paura”, questo ha detto poco prima di essere giustiziato. Salvo D’Acquisto sente dentro di sé lo Spirito Santo, e sa che con Gesù Cristo sta andando verso la resurrezione»

Sabato 23 settembre, in occasione dell’80° anniversario dal sacrificio del carabiniere Salvo D’Acquisto, la sezione di Pescara dell’Associazione Nazionale Carabinieri – intitolata alla sua memoria – ha organizzato una cerimonia di commemorazione, a cui hanno preso parte anche alcune Associazioni d’Arma di Pescara, con i loro stendardi, i soci dell’ANC e alcune classi dell’Istituto Comprensivo 6 di Pescara e di Nostra Signora. Salvo Rosario Antonio D’Acquisto è il carabiniere italiano, oggi Medaglia d’Oro al valore civile, che il 23 settembre 1943 offrì la sua vita per salvare quella di ventidue dei suoi uomini, che rischiavano di morire giustiziati dai soldati tedeschi. Questo gesto e la sua fede fervente lo hanno consacrato a Servo di Dio e, ormai da alcuni anni, è in corso la causa per la sua beatificazione.
La mattinata si è aperta alle 10.00 con la Santa Messa, celebrata nella chiesa Gesù Risorto a Pescara, e presieduta dal vicario generale dell’arcidiocesi di Pescara-Penne, Mons. Francesco Santuccione, e dal parroco, padre Mieczyslaw Konieczek, con l’animazione del M° Gabriella Ciaffarini. Durante l’omelia, Mons. Santuccione ha ricordato il nobile gesto di Salvo D’Acquisto equiparandolo alle figure di San Massimiliano Kolbe, San Nunzio Sulprizio e San Pio da Pietrelcina.

«Salvo D’Acquisto, questo giovane napoletano era andato a servire Dio, a fare il carabiniere, e trovandosi di fronte a una rappresaglia così disumana, a un certo punto, pur di salvare quelle persone ha detto: “Sono stato io”, si è autoaccusato. Io mi sento impressionato da questo giovane, chi avrebbe potuto fare così? Mi torna in mente anche San Massimiliano Kolbe, quando nel campo nazista era stato risparmiato, ma ha scelto di dare la vita per un uomo che neanche conosceva. Sono gesti che ci fanno capire l’umanità, quella vera che viene da Gesù. “Io muoio cento volte, cento volte rinasco. Dio è con me, io non ho paura”, questo ha detto poco prima di essere giustiziato.
Salvo D’Acquisto sente dentro di sé lo Spirito Santo, e sa che con Gesù Cristo sta andando verso la resurrezione. Ecco la forza, a cui dobbiamo attingere anche noi, che durante l’eucaristia riviviamo il mistero di amore del Cristo, il suo corpo dato e il suo sangue versato. Preghiamo perché la Chiesa quanto prima porti Salvo d’Acquisto a venerabile, come qualche anno fa è stato fatto con San Nunzio Sulprizio, un altro giovane sfortunato, che invece di maledire la vita si è fatto santo. Come anche Padre Pio, che si è consumato ore e ore per ridare pace alle coscienze. Usciamo da questa celebrazione tenendo conto dell’esempio fulgido di Salvo d’Acquisto, e impariamo noi a essere, secondo il Vangelo che abbiamo ascoltato, non il terreno sassoso, ma il terreno buono, in cui la Parola di Dio entra, trova la nostra disponibilità. Facciamo rifornimento di benedizione, di grazia per fare del nostro meglio, servire, perché chi serve regnerà per sempre».
Al termine della celebrazione, dopo la recita della preghiera del carabiniere – letta dal Luogotenente Vincenzo Lo Stracco, Presidente dell’Associazione Nazionale Carabinieri della sezione di Pescara – e la benedizione finale, un corteo, guidato dai carabinieri di Pescara, ha sfilato lungo via Mazzarino fino a piazza Salvo D’Acquisto, per la posa della corona d’alloro in omaggio al memoriale dedicato al giovane. Il compito di posare la corona è stato affidato al Vicesindaco del Comune di Pescara, Adelchi Sulpizio, insieme con il Prefetto di Pescara, Giancarlo Di Vincenzo, e il Comandante Provinciale dei Carabinieri di Pescara, Colonnello Riccardo Barbera.



In occasione della commemorazione abbiamo incontrato Abramo Rossi, classe 1924, carabiniere andato in pensione con il grado di Maresciallo aiutante nel 1979, a cui è stato conferito il titolo onorifico di Sottotenente dei carabinieri, direttamente dal Ministero della Difesa. A 99 anni compiuti, ci ha raccontato in un’intervista la sua esperienza di giovane carabiniere, quando nel 1943 – a pochi giorni dall’armistizio tra Italia e Stati Uniti e dalla morte del collega Salvo d’Acquisto – è stato deportato come prigioniero in un campo di lavoro nazista, da cui è stato poi liberato solo due anni più tardi.
Dove si trovava nel settembre del 1943, quando Salvo D’Acquisto veniva giustiziato?
Mi trovavo a Roma, presso la legione allievi carabinieri di Roma in qualità di carabiniere a cavallo promosso in tale grado il 30 giugno del ’43. Quell’8 settembre ci fu un editto, il capo del governo che era Pietro Badoglio, disse ai tutti i soldati di abbandonare le caserme perché la guerra era finita e fu un grave errore perché le caserme furono saccheggiate e non c’era più ordine e fu l’occasione delle truppe tedesche impossessarsi della città che prima eravamo alleati e poi non più. Quindi i nostri comandi furono soppressi e subentrò il comando della polizia aderente alla Repubblica di Salò. I carabinieri avevano l’onere dell’ordine pubblico perché Roma stava diventando una cosa indescrivibile, ognuno poteva fare quello che voleva. Noi per poter uscire dalla caserma bisognava andare in divisa e con il braccio rosso blu con la scritta Roma città aperta, perché a seguito dell’armistizio. Facemmo un corso accelerato da gennaio a giugno e in cinque mesi diventai carabiniere a cavallo. In questo reparto io mi occupavo dei cavalli, di strigliarli e di farli camminare ed ero lontano dall’orbita di comando perché avevo un’altra mansione.
Poi, però, la situazione è peggiorata per voi…
La mattina del 7 ottobre, grosso sorpresa ci mandarono l’interno della sala il maneggio coperto quindi ci dissero che eravamo prigionieri dalle truppe tedesche e che non c’era possibilità di scappare, perché la caserma era circondata. Stemmo lì tutta la giornata, man mano il maneggio si riempiva di centinaia e centinaia per non dire migliaia di persone, senza mangiare senza cambiarsi senza poter tornare in camerata con la divisa da carabiniere da lavoro. La sera, altra grossa sorpresa, ci caricarono su dei camion e ci portarono alla Stazione Ostiense di Roma. Ci fecero salire sui carri bestiame in sosta sulle rotaie. Quando il treno era pieno, chiusero dall’esterno, quindi non si poteva scendere. Non sapevamo dove stavamo andando; il giorno dopo alle 10:00 arrivammo a Bologna e il treno si fermò per farci andare in bagno, sempre sorvegliati a vista. Verso la sera dell’8 ottobre ci ritrovammo in una frazione austriaca chiamata Priel dove passammo la notte sotto un grande tendone, senza mangiare naturalmente, faceva freddo già all’inizio di ottobre era freddo sulle Alpi. Il giorno dopo ci portarono in un lager si chiamava “Diciottesimo A” e si trovava in località Trofaiach.
In che condizioni eravate sistemati?
Ci sistemarono in una camerata di legno e ci fecero togliere la nostra divisa per indossare una tuta da meccanico e un paio di scarpe di legno, nessun copricapo; quindi ci portarono alla mensa, finalmente, dove trovammo della minestra in una ciotola, una brodaglia con delle rape tritate e barbabietola, senza pasta, e mangiammo quella roba lì. Ci diedero anche una pagnotta di pane da 1 kg da dividere in tre e doveva bastare per ventiquattro ore. Dopo due giorni, ci svegliarono alle di mattina 4.00 e partimmo incolonnati fino al paese di Trofaiach. Lì prendemmo un treno e arrivammo al paese di Leoben-Donawitz, dove si facevano le paratie per i carri armati. Alle 6.00 entrammo in fabbrica e ci assegnarono ai capi operai: io capitai con un sessantenne del luogo, e il mio lavoro consisteva nell’individuare il materiale ferroso in migliaia di tonnellate di cose che venivano dalla guerra, per essere poi fuso negli alti forni e tornare utilizzabile. Io lavoravo dodici ore al giorno con una pausa di mezzora a mezzogiorno dove veniva servita la stessa minestra che si mangiava al campo. La sera, alle 6.00 in punto, si lasciava la fabbrica e si faceva il tragitto al contrario per tornare nel lager, dove si entrava in mensa per mangiare la solita brodaglia e poi si andava a letto, stanchi e infreddoliti.
Quanto tempo è durata questa prigionia?
Fino al 14 aprile del 1945, quando senza preavviso ci caricarono su dei camion e ci lasciarono a Tarvisio, in Italia. Senza dire niente, ci lasciarono lì. Noi eravamo soli e confusi, isolati, senza sapere come tornare a casa. Io, qualche giorno prima, mi ero procurato una lussazione articolare tibio tarsica alla gamba sinistra alla fonderia, e dovevo camminare con le stampelle. Lì iniziò un’odissea per tornare a casa.
Sono passati 80 anni da questi eventi, e lei li racconta con una tranquillità disarmante. Allora, ha avuto paura?
No, ero giovane e non avevo fatto nulla di male, non mi potevano fare nulla. La mattina pregavo la Divina Provvidenza perché mi aveva fatto rivedere la luce del sole. Era una vita che non aveva sbocco, non si sapeva quando sarebbe finita la guerra, e anche se circolavano delle notizie a noi non arrivavano perché eravamo sempre lontani a lavorare.
Foto: redazione e Anc Pescara