L’Aquila 13 anni dopo: “Le campane non suonano a morto, diffondono la voce della risurrezione”
"Oggi, nella nostra preghiera – sottolinea l’arcivescovo de L’Aquila - , commemoriamo non solo quanti sono deceduti “sotto” la violenza devastante del sisma, ma anche le altre “vittime”, quelle del “dopo” terremoto: coloro, cioè, che sono deceduti a causa di patologie provocate da “traumi” postumi, connessi al sisma. Come l’amore più grande è dare la vita per i propri amici (cfr. Gv 15, 13), così il dolore più grande è vedere morire le persone che si amano immensamente"
Prima la fiaccolata che, dopo due anni di assenza a causa della pandemia di Covid-19, è tornata a snodarsi sulle strade de L’Aquila, sostando dapprima davanti l’ex Casa dello studente, proseguendo fino al Parco della memoria e poi a piazzale Paoli dov’è stata data lettura dei nomi delle vittime e uno degli atleti della Nazionale ciclisti ucraina – insieme ad un vigile del fuoco – ha acceso il “braciere della memoria”. Quindi, alle 24, nella chiesa di Santa Maria del Suffragio è stato il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L’Aquila e presidente della Conferenza episcopale abruzzese e molisana, a presiedere la santa messa in suffragio delle 309 vittime del sisma che da devastato il capoluogo abruzzese, e altri 56 comuni limitrofi, il 6 aprile di 13 anni fa. Il momento più toccante, inevitabilmente, è stato quando all’ora esatta in cui la terrà tremò – alle 3.32 – le campane della chiesa del Suffragio hanno battuto 309 rintocchi, uno a ricordo di ciascuna delle 309 vittime.
Questi i momenti più significativi della cerimonia per il tredicesimo anniversario del sisma, che il cardinale Petrocchi ha paragonato alla passione di Gesù morto e poi risorto: «Sappiamo – afferma il porporato nell’omelia – che in ogni celebrazione eucaristica si rende presente la Pasqua di Gesù, cioè, la Sua morte e risurrezione. Questa messa conclude la fiaccolata che ha visto, ancora una volta, la partecipazione commossa e corale della nostra gente. Non si tratta di una manifestazione solo evocativa e simbolica, ma di una testimonianza di fede, di amore e di speranza. Non si commemorano soltanto una tragedia sismica e le vittime che ha provocato, ma si testimonia la Vita che non soccombe e si erge indomita: sfida la morte e nel duello esce vittoriosa. L’amore, infatti, ha la meglio sulla morte: non viene meno, non diminuisce col passare degli anni, ma si rafforza ogni giorno di più. La vostra presenza, carissime Sorelle e Fratelli, attesta efficacemente questo prodigio: è l’amore che ha l’ultima parola. La luce delle torce, del vostro corteo, ha squarciato il buio della notte: questi bagliori anticipano la luce del giorno che scaccia ogni oscurità. Sono profezia del Sole che sorge. Nel Rito della Pasqua, la Risurrezione di Cristo è annunciata con l’accensione del Cero: la Chiesa proclama la “notte luminosa” in cui è uccisa la morte e trionfa la Vita».
Per questo, secondo il cardinale Petrocchi, nelle pagine della storia di persone che si amano, la comparsa della morte non segna mai un “punto e basta”, ma un “punto e a capo”: «Il legame che ha unito le persone non è reciso – precisa -, ma è cambiato e viene “eternizzato”. Ciò che “prima” era segnato dalla precarietà del tempo, ora porta il timbro indelebile del “per sempre”. La logica della Pasqua, modifica la grammatica con cui è pensato l’evento della morte: quando si parla di una persona che è passata dal tempo all’eternità, non è giusto dire che “è scomparso”, ma doveroso affermare: “continua ad essere presente”; e l’espressione stridente: “estinto” o “non c’è più”, va sostituita con l’altra: “rimane ancora, anche se in modo diverso”. Il prefazio, che recitiamo in questa liturgia, dichiara solennemente: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”. La morte “non è uno sfacelo che tutto disperde e distrugge – aggiunge il cardinale citando Leone XIII nella “Laetitiae sanctae” -, ma un semplice passaggio e un cambiar vita” . Le vittime del terremoto continuano ad abitare nei nostri pensieri, ed hanno stabile dimora nei nostri cuori. Per questo stasera li nominiamo tutti: uno ad uno. Non si tratta di “necrologio”, ma di un “appello”. Non sono “ex” concittadini e confratelli, ma restano a pieno titolo parte integrante della nostra Comunità ecclesiale e civile. I tocchi delle campane non suonano a morto, ma diffondono la voce della risurrezione».
Ma la preghiera della comunità aquilana non è stata rivolta solo alle vittime cadute sotto le macerie: «Oggi, nella nostra preghiera – sottolinea l’arcivescovo de L’Aquila – , commemoriamo non solo quanti sono deceduti “sotto” la violenza devastante del sisma, ma anche le altre “vittime”, quelle del “dopo” terremoto: coloro, cioè, che sono deceduti a causa di patologie provocate da “traumi” postumi, connessi al sisma. Come l’amore più grande è dare la vita per i propri amici (cfr. Gv 15, 13), così il dolore più grande è vedere morire le persone che si amano immensamente. A un genitore che ha perso un figlio non si può chiedere di non soffrire più, ma gli va chiesto di soffrire “bene”, con anima evangelica. La certezza della Pasqua non toglie il dolore su cui è impresso il sigillo del vincolo famigliare: ed è bene che sia così. Perché quel dolore è sacro. Testimonia un amore che sbaraglia morte, perché non si arrende e si spinge in avanti, nell’attesa del ricongiungimento. La separazione, infatti, è solo temporanea: costituisce una “pausa” che prepara l’abbraccio definitivo. Gesù è disceso nel mare della sofferenza, fino a raggiungere il fondo dell’abisso. Ogni evento doloroso, per quanto grave e drammatico, si colloca a livelli meno profondi del Suo, che ha preso su di Sé tutto il dolore del mondo. In Lui, siamo partecipi gli uni degli altri, perché siamo “membra del Suo corpo” (Ef 5,30). La sofferenza non è più solo “tua” o solo “vostra, ma è “Sua” e perciò “nostra”: è portata insieme, “come” Chiesa, e “nella” Chiesa. La consolazione, che viene dallo Spirito, diventa “con-piangere”, ma anche “con-credere”: conduce a “collegarsi”, per grazia, con il Cielo, pur avanzando nel pellegrinaggio sulla terra. Come tanti chicchi di grano formano un solo pane, nella mensa eucaristica, così tanti cuori, raccolti in Gesù, il crocifisso risorto, formano una sola offerta al Padre celeste, che assume questo dono fatto-Chiesa e lo colma con l’effusione del Suo Spirito: Spirito di Verità, di Amore, di Unità, di Letizia e di Pace. «È con questa forza divina che gli uomini-di-comunione cooperano a costruire la cultura della solidarietà, della giustizia e della pace: in un parola, la civiltà dell’amore. Inoltre, attraverso questa instancabile e luminosa dedizione, sanno di affrettare (cfr. 2Pt 3,12) la venuta definitiva del Regno, nella certezza che “nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere più umana la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano”» (SRS, n. 48). Nel brano del Vangelo, che ci è stato annunciato, Gesù ci consegna una formidabile promessa: ’Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi’. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8,31-32.36). Liberi, dunque, qualunque cosa accada; liberi, pure “dentro” il dolore, perché accolto e valorizzato come una “risorsa salvifica”, se viene reso amore. Ecco perché quelli che fanno-Pasqua con Gesù, anche in mezzo alle “fiamme” della tribolazione (come è avvenuto per Azaria e i suoi compagni, secondo il racconto del profeta Daniele), restano “illesi”, cioè non sono “consumati” dalla rabbia o dallo sconforto, e mantengono una “serenità profetica”, perché carica di speranza (cfr. Dn 3,49-50)».
Infine, il presidente dei vescovi abruzzesi e molisani ha espresso anche un pensiero dedicato ai profughi ucraini, resi tali dalla guerra, accomunati ai profughi aquilani resi tali dal terremoto: «Le donne e gli uomini, i giovani e bambini della nostra gente – conclude il cardinale Giuseppe Petrocchi -, che hanno visto morire i loro cari, e hanno dovuto lasciare angosciati le loro case distrutte dal terremoto, ben capiscono il dramma dei profughi ucraini costretti dalla furia insensata e omicida della guerra ad abbandonare le loro abitazioni e a cercare rifugio in altre nazioni. In questo dolore lacerante L’Aquila, Città-Martire, si sente Città-Sorella con Kiev, Mariupol, Kharkiv, Bucha, Irpin, Odessa, e con tutti i centri urbani o i villaggi colpiti dalla violenza sacrilega e devastante delle bombe. Per questo il Popolo aquilano – che ben conosce il patire, ma testimonia anche una tenace volontà di ricostruzione – prega per la pace, unito a Papa Francesco, ai credenti di tutte le confessioni e fedi religiose e agli uomini di buona volontà. In questi giorni sentiamo parlare, con accenti concitati, di allerta e di mobilitazione bellica: vogliamo rispondere alla brutalità barbara e feroce della guerra con l’“allerta” e la “mobilitazione” della solidarietà e della “com-passione”, creando una stretta catena di accoglienza, di amicizia e di condivisione. Siamo fiduciosi che dopo la bufera, tornerà a splendere il sole della riconciliazione e della fraternità: più luminoso e caldo di prima. Infatti, scrive Papa Francesco: «è il Risorto che ci dice, con una potenza che ci riempie di immensa fiducia e di fermissima speranza: “Io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Con Maria avanziamo fiduciosi verso questa promessa» (EG 287). E proprio a Maria (che ha vissuto lo strazio di fissare lo sguardo su Gesù crocifisso, ma è anche la prima a gioire per averLo visto risorto) affidiamo tutti i popoli martoriati da conflitti armati: sia Lei – Madre, Maestra e Modello dei Credenti – ad insegnarci l’arte di vivere la storia con la forza trasformante della carità (segno distintivo dei figli di Dio) e a renderci costruttori perseveranti di pace, con la coerenza lungimirante e tenace di cittadini degni del Vangelo (cfr. Fil 1,27)».