“Quando incontriamo una persona disabile incontriamo Dio”
"C’è bisogno di un di più di impegno nell’uso delle parole – esorta Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali Cei -. Non esistono specializzazioni, si tratta di avere un linguaggio purificato che sappia trasmettere l’amorevolezza della cura e sappia custodire l’altro. Chi vive il contatto con la fragilità conosce questa profondità. Bisogna spogliarsi degli aggettivi inutili per arrivare alla sostanza della persona"
Si è riunito ieri a Brenzone sul Garda il gruppo di lavoro del Servizio nazionale per le pastorale delle persone con disabilità, per fare il punto sulla presenza del servizio nelle varie diocesi e guardare ai prossimi importanti appuntamenti che interesseranno le Chiese locali.
All’incontro è intervenuto online dapprima l’arcivescovo di Cagliari e vice presidente della Conferenza episcopale italiana per il Centro Italia, monsignor Giuseppe Baturi: «Le persone con disabilità – esordisce – devono essere partecipi ed esprimere la loro opinione. Devono essere protagoniste della vita della Chiesa e della società. Dobbiamo avere una preoccupazione costante per le persone, soprattutto per chi ha più necessità. E possiamo farlo imponendo o attraendo. Penso che se il Servizio produrrà cose buone e significative, sarà in grado di persuadere all’importanza di istituire strutture a livello diocesano».
Per il presule è fondamentale che, da questo punto di vista, le decisioni vengano assunte a livelli collegiale: «L’uomo solo al comando – ammonisce – distrugge la Chiesa. La Curia è la struttura di cui il vescovo si serve per esprimere la propria carità pastorale. Nessun ufficio può essere autoreferenziale o pensarsi al di fuori dell’attività pastorale. Chi lavora in Curia, deve avere consapevolezza di camminare e collaborare con tutta la Chiesa». A questo punto monsignor Baturi, richiamando Papa Francesco, ha invocato la necessità di una conversione pastorale: «Affinché la Curia diventi sempre più missionaria – auspica -, perché essa non è un assessorato o una struttura di potere».
Infine, il vice presidente della Cei ha rivolto ancora un invito a “non presidiare i confini, ma ad aprirsi agli uomini”: «Il modo migliore per fare pastorale – spiega – è sapere chi incontriamo. E quando incontriamo una persona con disabilità, incontriamo Dio. Non facciamo del bene a un estraneo, ma a Dio che è in lui. Dal momento che l’annuncio del Vangelo deve essere adatto a ogni uomo, dobbiamo accogliere la persona nelle sue condizioni. Ciò che è normale è rivolgersi in modo adatto a ciascuno. Non esistono situazioni anormali o condizioni di vita imperfette».
Nel successivo intervento, invece, il direttore dell’Ufficio catechistico nazionale e sottosegretario Cei monsignor Valentino Bulgarelli, ha parlato dell’imminente Sinodo della Chiesa: «Siamo in presenza – afferma – di un cantiere in divenire. Non è ancora definito il cammino prossimo, per lasciare il tempo ai vescovi di armonizzare il percorso da compiere. La preoccupazione dei vescovi è quella di non appesantire la vita delle comunità diocesane. Il cammino non deve essere solo qualcosa in più da fare. Tutti i vescovi hanno rimarcato la necessità che questo cammino debba essere un aiuto per la vita delle comunità, soprattutto in questo tempo particolare».
Da qui la precisazione del sottosegretario della Cei: «Il Cammino sinodale non è un insieme di eventi – sottolinea -. Se così fosse, si tratterebbe di un tradimento della volontà iniziale. Prima di tutto dobbiamo riscoprire il volto di Chiesa che la ‘Lumen Gentium’ ci consegna nel primo capitolo. Una Chiesa facilitatrice dell’incontro tra Dio e la creatura. Il Cammino sinodale deve ripartire da qui». Dunque, il Sinodo dev’essere visto come un’opportunità: «Per essere insieme – ribadisce -, fare insieme e camminare insieme con Cristo. I vescovi italiani faranno il loro percorso, ma assumeranno anche il percorso del Sinodo dei Vescovi. Il Cammino sinodale della Chiesa italiana avrà così un respiro universale. Ci sarà un tempo largo dedicato all’ascolto delle nostre comunità parrocchiali, ma anche delle voci esterne, affinché il Cammino non sia solo un esercizio ad intra. Dobbiamo dialogare anche con chi la pensa diversamente, come ci chiede il Papa».
E dietro una buona pastorale c’è anche una buona comunicazione, come ha ricordato il direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Cei, Vincenzo Corrado: «Il nostro stile di comunicazione – spiega – deve essere integrato, perché la nostra vita non è divisa in settori distinti; integrale, perché non siamo dimensioni a sé stanti ma facciamo parte di una grande comunità; inclusivo, perché nessuno deve essere escluso dalle nostre comunità. L’inclusività è dirimente: non è questione di fragilità, ma di ricchezza».
E la comunicazione, secondo l’esperto, non dev’essere solo frutto di un lavoro ad appannaggio di esperti: «La comunicazione – rilancia Corrado – è un’opera artigianale in cui emerge la sana creatività. Non è un’opera isolata, perché non comunichiamo per settori separati. Deve essere profondamente ecclesiale e, per questo, superare le divisioni». Una comunicazione che, soprattutto dopo la pandemia, va usata responsabilmente: «C’è bisogno di un di più di impegno nell’uso delle parole – esorta il direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali Cei -. Non esistono specializzazioni, si tratta di avere un linguaggio purificato che sappia trasmettere l’amorevolezza della cura e sappia custodire l’altro. Chi vive il contatto con la fragilità conosce questa profondità. Bisogna spogliarsi degli aggettivi inutili per arrivare alla sostanza della persona».
Quindi Vicenzo Corrado ha espresso un’idea al Gruppo di lavoro del Servizio nazionale per la pastorale con le persone disabili: «È importante – invita – pungolare la comunicazione sull’inclusività, costruendo relazioni con gli Uffici per la comunicazione sociale, perché nessuno sia escluso». Infine, Corrado ha illustrato un decalogo di presenza sui social: non approcciarsi ai social con le logiche degli influencer; puntare alla costruzione della comunità più che alla divisione in tifoserie; non sottovalutare mai l’importanza del linguaggio; non utilizzare parole che raccontano solo il proprio “ego”; usare i social con maturità umana; far tesoro della ricchezza della propria spiritualità; essere originali nella fede; ricordare sempre di avere un’unica identità; abitare i social significa studiarli; impegnarsi per una formazione continua e permanente.