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Kenya: “400 mila persone rischiano di perdere l’unico posto che li ha accolti. Dove andranno?”

"I campi, pensati come strutture temporanee - ricorda Missio Giovani dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne -, sono andati via via organizzandosi in modo sempre più stabile. Attraversando le viuzze interne era possibile notare come sui lati fossero disposte varie attività lavorative e che queste fossero divise per nazionalità, ciascuna nazionalità aveva l'esclusiva in un determinato settoreNon stupisce quindi lo sconforto odierno degli abitanti di Kakuma, che alcuni siti hanno sintetizzato con "No other home": il campo è divenuto una casa per chi vi è rifugiato, specie per chi è lì da sempre o da molto tempo!"

Il gruppo Missio Giovani dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne ricorda l’esperienza vissuta nel campo di Kakuma nel 2018

La delegazione pescarese di Missio Giovani, guidata da don Massimo D Lullo, ne campo profughi di Kakuma

Lo scorso 8 aprile l’Alta Corte del Kenyasecondo quanto riportato da AlJazeera, avrebbe “sospeso”, per 30 giorni la misura del governo keniota del 25 marzo che prevedeva la chiusura, entro 14 giorni, dei due grandi centri per rifugiati dell’Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees – Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Uno è situato a Kakuma, nel nord del Kenya al confine con il Sud Sudan, l’altro si trova a Dadaab, nell’area confinante con la Somalia. La motivazione che muove tale decisione pare sia legata al problema della sicurezza nazionale. Tuttavia non si esclude che il provvedimento sia stato preso in relazione alle recenti difficoltà diplomatiche tra Kenya e Somalia, anche se il ministero degli Interni ha smentito questo collegamento.
L’Unchr dal canto suo, nelle scorse settimane, ha ringraziato il Kenya per la disponibilità ad ospitare i campi profughi – aperti circa trent’anni fa – ed auspica che si riesca a trovare una soluzione sostenibile, che al tempo stesso continui ad assicurare la protezione ai rifugiati che ne hanno necessità

I campi ospitano più di 400 mila persone, di cui circa 190 mila si trovano a Kakuma, un numero ben superiore a quello che potrebbe ospitare. I rifugiati ospitati appartengono a diverse nazionalità: somali, etiopi, burundesi, sud sudanesi, per dirne alcune.
Le cause che hanno portato le popolazioni dei due campi a richiedere protezione al di fuori delle proprie nazioni di origine sono molteplici. Inoltre il Kenya, si legge sul sito dell’Unhcr, è l’unico paese della regione a offrire rifugio a chi fugge anche a causa dell’insicurezza, se non dalla persecuzione, dovuta al problema dei diritti riguardanti l’inclusività di genere, l’identità di genere e l’orientamento sessuale nei paesi d’origine di alcuni rifugiati.
Inutile dire che la notizia è stata presa con grande sconforto dai residenti dei campi. Il sito AlJazeera riporta diversi commenti dei rifugiati come Hibo Mohamed, una ventiquattrenne somala che da 10 anni vive a Kakuma. Hibo ha spiegato che la notizia della chiusura l’ha sconcertata e tantomeno crede sia possibile un ritorno in Somalia, dove la situazione è ancora instabile, concludendo così:《Kakuma has become a home to me, where I found peace》(Kakuma è diventa una casa per me, dove ho trovato la pace). 

Un’immagine del campo profughi di Kakuma

Già perché, per molti individui, i campi sono delle vere e proprie case. In particolar modo se pensiamo alle nuove generazioni che all’interno del campo ci sono nate e continuano a nascervi ancora. Una delle prime cose che si legge sul sito Unhcr Kenya è infatti la notizia che, nonostante la pandemia e i timori da essa generata, migliaia di donne e ragazze hanno continuato a ricevere assistenza nelle strutture sanitarie del campo
Una delle cose che ci ha colpito di più quando nel 2018 abbiamo visitato una parte del campo di Kakuma, come Missio Giovani della diocesi di Pescara, è stato proprio l’argomento delle nascite all’interno dei campi. Molte persone che abbiamo incontrato infatti non conoscevano altra realtà al di fuori di quella del campo profughi. Sia che vi fossero arrivati appena realizzato il campo, sia che vi fossero nati, i rifugiati con cui abbiamo scambiato qualche parola vedevano quella che vivevano come unica realtà possibileChi è nato nel campo e durante la sua vita ha fatto esperienza soltanto di quello che vi è all’interno, cosicché  pensa che il mondo sia tutto così. Strettamente collegato a questo tema è l’isolamento dei campi, che sono situati distanti dalle aree della regione e senza un vero e proprio collegamento stradale che possa garantire gli spostamenti in modo semplice o comunque paragonabile alle strade che portano alle altre zone di Kakuma ad esempio. 

I campi, pensati come strutture temporanee, sono andati via via organizzandosi in modo sempre più stabile. Attraversando le viuzze interne era possibile notare come sui lati fossero disposte varie attività lavorative e che queste fossero divise per nazionalità, ciascuna nazionalità aveva l’esclusiva in un determinato settore. Era possibile vedere come cambiavano, a seconda della ricchezza, la tipologia di baracche e di materiali con cui erano costruite. Da rifugi temporanei a piccoli quartieri. Così il campo per rifugiati, pensato per essere temporaneo, è divenuto una vera e propria città con negozi, bancarelle, servizi, scuole, ospedali…
Un giovane rifugiato ci disse di essere felice, nonostante la situazione lì nel campo fosse pesante, nonostante fosse difficile lavorare per poter dare da mangiare ai propri figli. Ci disse che era felice, anche se forse non lo era veramente, perché lì, senza felicità, sarebbe stata ancora più dura.

Non stupisce quindi lo sconforto odierno degli abitanti di Kakuma, che alcuni siti hanno sintetizzato con “No other home”: il campo è divenuto una casa per chi vi è rifugiato, specie per chi è lì da sempre o da molto tempo.
Per i rifugiati di Kakuma e Dadaab sarà importante conservare quei sentimenti positivi, come quel giovane papà, con cui affrontano una realtà così difficile. Soprattutto in questo momento in cui c’è il rischio che debbano abbandonare quel luogo che, di nuovo o per la prima volta, hanno considerato come propria casa.

CESARE DI BLASIO

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