Eucaristia: “Solo da fratelli possiamo sedere alla Mensa, altrimenti ipocrita”
"Se questa è l’Eucaristia - esorta l'arcivescovo Valentinetti - dobbiamo avere il coraggio di diventare noi Eucaristia, dobbiamo essere noi capaci di essere “mangiati” da chi? Dai fratelli, dal mondo, dalla realtà della storia. Noi siamo tanti piccoli semi eucaristici, lanciati dentro la storia dell’umanità"
Ieri sera l’arcivescovo di Pescara-Penne, monsignor Tommaso Valentinetti, ha presieduto nella parrocchia di Sant’Antonio di Padova a Montesilvano santa messa nella veglia del Corpus Domini nel giorno in cui sono coincisi anche i festeggiamenti in onore del santo patrono della comunità parrocchiale e cittadina.
Ad accogliere il presule è stato il parroco don Fernando Pallini, che aveva poco prima celebrato il funerale del 58enne Livio De Vincentiis, storico parrocchiano e personaggio tra i più conosciuti e amati dai montesilvanesi: «La sua scomparsa – spiega il parroco, dando il benvenuto all’arcivescovo – ci ha veramente spezzato il cuore. È stato un ragazzo che ha camminato insieme a noi, ha accompagnato questa parrocchia, questo scorcio di storia della nostra parrocchia. Abbiamo ancora il cuore colmo di commozione. Siamo contenti che lei è qui questa sera, perché credo che sia importante anche offrire tutto questo al Signore, insieme a lei che è il nostro pastore».
E anche l’arcivescovo Valentinetti, avviando la celebrazione eucaristica, ha voluto anch’egli ricordare la figura di Livio: «Offriamo al Signore questo momento di mancanza di questo fratello che conoscevo molto bene anch’io – ricorda il presule -, perché tutte le volte che arrivavo qui veniva sempre a fare festa e a salutarmi. E soprattutto, offriamo al Signore il tempo di fatica che abbiamo vissuto, così come questa complicata riapertura della celebrazione eucaristica domenica festiva, in occasione della festa del patrono della parrocchia. Celebriamo la liturgia vigiliale del Corpus Domini, ma mi sembra che ci sia un legame tra il pane dell’eucaristia – pane condiviso, pane spezzato – e quello che la tradizione ci fa attribuire a Sant’Antonio di Padova, pane condiviso e spezzato soprattutto per i poveri».
Nell’omelia, l’arcivescovo di Pescara-Penne è partito ripensando al tempo della clausura forzata scaturita con l’esplosione della pandemia di Coronavirus Covid-19, che ha impedito ai fedeli pescaresi e del mondo intero di partecipare fisicamente alla santa messa: «Siamo tornati a celebrare l’eucaristia da qualche domenica – ricorda monsignor Valentinetti – dopo esserne stati privati per troppo tempo, non per nostra cattiva volontà, ma per obbedire alle precauzioni più che legittime che ci venivano indicate per superare questi momenti così difficili e particolari. Abbiamo fatto digiuno non tanto fisicamente, ma quanto digiuno eucaristico. E mi piace associare questo desiderio, che tutti quanti avevamo, di tornare a celebrare l’eucaristia con la fame che il popolo d’Israele ha vissuto nel deserto di cui ci ha parlato il libro del Deuteronomio. Certo, era una fame del corpo, ma era una fame dello spirito. Ma nel segno della manna che ci viene data, così com’è stato narrato nella prima lettura, Dio ha dato la prova di prendersi la cura di quel popolo, che Lui aveva tratto dalla schiavitù dell’Egitto e aveva condotto nel deserto per farlo arrivare nella terra promessa. Non so se siete stati attenti “Il Signore ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi, e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di quanto esce dalla bocca del Signore, dalla sua Parola”. È stato un tempo in cui, è vero, ci siamo privati forzatamente dell’Eucaristia, ma forse abbiamo approfittato di quel tempo per nutrici di Parola. Forse mai come in questo tempo, mai come adesso, l’unico appiglio che avevamo per rimanere legati al Signore era la Parola. I salmi, la Parola di Dio, il Vangelo letto, ascoltato, meditato in profondità, perché il Signore non ci lascia soli, il Signore non ci abbandona mai, il Signore provvede a noi in ogni momento, in ogni circostanza. Si è parlato, permettetemi di dirlo con franchezza, di privazione della libertà religiosa. Ma quando mai?! Chi ci ha impedito di esprimere la nostra fede? Nessuno, nessuno ci impedisce di esprimere la nostra fede e di tornare ad esprimere liberamente la nostra fede. Dobbiamo avere questa coscienza, che il Signore non ci lascia mai, il Signore si prende cura di noi e se forse abbiamo dovuto fare digiuno forzato eucaristico, è perché questa Eucaristia la desiderassimo di più, perché questa Eucaristia diventasse veramente il cibo che alimenta il cuore, l’anima, la mente e lo spirito, che ci dà il nutrimento per la nostra interiorità».
E nella solennità del Corpus Domini, l’arcivescovo Valentinetti si è anche posto la domanda sul perché Gesù ha scelto di dare il pane e il vino da mangiare e da bere ai suoi discepoli in quell’ultima cena, durante la quale ha detto “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”: «Ha scelto un’occasione particolarissima – osserva il presule -, che ha una dimensione antropologica. L’uomo non può fare a meno del pane e neanche del vino, perché è una bevanda. La cultura, nel mondo, è nata nel momento in cui l’uomo ha fatto il pane e ha fatto il vino, comprendendo che poteva mangiare non tanto e solamente l’erba, i frutti degli alberi e gli animali che cacciava, ma poteva procurarsi da mangiare attraverso qualcosa che poteva fare con le sue mani. Il grano che diventava farina e la farina che diventava pane; l’uva che diventava mosto e il mosto che diventava vino. È il segno dell’umanità. Gesù non ha voluto lasciare l’umanità, è voluto entrare totalmente dentro l’umanità e lo ha fatto in una cena. Certo, la cena pasquale degli ebrei, quasi certamente. Ma una cena, un momento conviviale, il momento in cui si sta insieme, il momento in cui ci si vuole bene, perché si mangia insieme se ci si vuole bene. In famiglia, con gli amici, in una festa si mangia insieme. E allora Gesù ha voluto scegliere lo stare insieme, la comunità, per potersi donare, per poter rimanere sempre in mezzo a noi. Allora, fratelli, il primo segno dell’eucaristia è la nostra umanizzazione. Se siamo totalmente umani possiamo sederci a questa mensa, se siamo realmente fratelli, se siamo famiglia possiamo sederci a questa mensa. Se siamo realmente uniti quando presenti la tua offerta all’altare, così come noi faremo questa sera, e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta, va a riconciliarti prima con il tuo fratello e poi sappiamo bene che l’Eucaristia – prima della comunione – culmina in quel segno “Vi ho lasciato la pace, vi ho dato la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”. Certo, per adesso, questa pace la pace non possiamo scambiarcela nelle nostre celebrazioni eucaristiche, è un’altra limitazione che abbiamo, ma questo è il segno che solo l’unità, solo la pace, solo fraternità possono fare l’Eucaristia. Altrimenti, quest’ultima è irrisolta o addirittura è ipocrita. E lungi da noi di celebrare eucaristie ipocrite».
E se questa è l’umanità, altre due sue caratteristiche sono la spiritualità e la divinità: «Perché – precisa l’arcivescovo Valentinetti – la pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato, ci ha fatto mettere in evidenza due elementi importanti. Il primo è che “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna” e poi il secondo elemento “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Cioè, se vogliamo incontrare il Padre dobbiamo incontrare Gesù e per incontrare Gesù dobbiamo incontrare l’Eucaristia. Perché “Chi mangia questo pane vivrà per Me” e vivrà quelle dimensioni d’amore, di pace, di fraternità, di gioia, che chiaramente nascono dell’Eucaristia stessa. Ma quest’ultima è anche divinità. “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Io lo dico sempre, lo ripeto spesso, forse l’ho detto anche a voi, che tutte le volte che celebriamo l’Eucaristia noi viviamo un pezzetto di Paradiso, perché veniamo trasferiti dentro una dimensione che non è umana e basta. È una dimensione umana divina, cioè noi entriamo in una sfera dove Dio solo c’è, dove Dio solo è tutto, dove Dio solo riempie ogni nostro desiderio e ogni nostra ansia. E allora, cari fratelli, se questo è quello che celebriamo e così come ho detto all’inizio della celebrazione eucaristica, ricordando Sant’Antonio, se questa è l’Eucaristia dobbiamo avere il coraggio di diventare noi Eucaristia, dobbiamo essere noi capaci di essere “mangiati” da chi? Dai fratelli, dal mondo, dalla realtà della storia. Noi siamo tanti piccoli semi eucaristici, lanciati dentro la storia dell’umanità».
Una storia, quest’ultima, che per monsignor Tommaso Valentinetti sta diventando difficile: «Mi aspettavo – lamenta – che questo tempo di quasi tre mesi di riflessione forzata, di clausura forzata per tutti, portasse più pace, portasse tranquillità, portasse più serenità. Che i potenti di questo mondo e, soprattutto, coloro che governano le sorti delle nazioni avessero più sapienza nel cercare di comprendere i bisogni degli uomini e delle donne che vivono sulla faccia della terra. Ci stiamo preoccupando di come,nel mondo, da dicembre fino a maggio, ci siano stati quasi 500 mila morti a causa del Coronavirus Covid-19, perché purtroppo questa pandemia in alcune aree non ancora finisce e sta mietendo vittime in abbondanza. Ma sapete quante persone, da dicembre a maggio, sono morte di fame? 2,5 milioni, ma quelle nessuno li vede. Sono i fantasmi invisibili a cui nessuno pensa, perché l’egoismo umano non riesce ancora a capire che solo un’equa distribuzione dei beni della terra può risolvere i problemi dell’umanità. Ma l’egoismo umano non ha fine. Anzi, si sta litigando anche su chi prima deve avere il vaccino per questa malattia, pensate un po’!».
Da qui l’auspicio finale dell’arcivescovo: «Che il Signore – afferma – abbia misericordia di noi, abbia misericordia di tutti e susciti soprattutto nel cuore di tanti, soprattutto nel cuore di chi ha responsabilità dei popoli e delle nazioni, le giuste vie perché il mondo non prenda strade sbagliate. E il mondo, purtroppo, può prendere strade sbagliate. Che il Signore illumini veramente i cuori».
Al termine dell’omelia, il presule ha rivolto i suoi auguri al vicario parrocchiale di Sant’Antonio di Padova, padre Enrico Karbowiak, che oggi ha celebrato i 50 anni di ordinazione sacerdotale. Un augurio condiviso dall’assemblea, che gli ha tributato un lungo applauso: «Per 50 anni – concluse l’arcivescovo di Pescara-Penne – ha celebrato l’Eucaristia. Da 50 anni tutti i giorni, tutte le mattine o tutti i pomeriggi, quel pane e quel vino per le sue mani, sono diventati il corpo e il sangue di Gesù. E poi lo ringrazio per la semplicità e per la disponibilità con cui, ormai da qualche tempo, sta servendo questa parrocchia con don Nando, sempre presente, sempre attento, sempre preciso ai bisogni delle persone che si rivolgono alla comunità parrocchiale. Grazie, perché con questo applauso avete applaudito non solo a lui, ma a tutti i sacerdoti della diocesi che si stanno impegnando e si sono impegnati anche in questo tempo, a proseguire il loro ministero. Che il Signore li rimeriti e li benedica tutti».