“Non c’è antisemitismo che non voglia la fine della democrazia”
"E noi, in questa storia - esorta Daniele Garrone - dobbiamo diventare consapevoli non per diventare una nicchia di esperti di Ebraismo, ma perché bisogna arrivare a far sì che la conoscenza invece dell’ignoranza, il dialogo invece della polemica, l’empatia nel rispetto dell’alterità invece che del disprezzo, facciano parte del bagaglio del cristiano qualunque"
È stato il teologo valdese Daniele Garrone il protagonista della conferenza, dal tema “Chiese cristiane, popolo ebraico e antisemitismo”, che lo scorso venerdì ha chiuso gli appuntamenti dell’arcidiocesi di Pescara-Penne, coordinati dal direttore dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo don Achille Villanucci, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Un evento ospitato nel salone della parrocchia dello Spirito Santo a Pescara e avviato con un bilancio compiuto dall’esperto sul dialogo ecumenico portato avanti fino ad ora dalle Chiese cristiane, dopo l’accelerazione impressa dal Concilio Vaticano II: «Siamo in cammino dopo secoli di contrapposizioni polemiche – premette Garrone -, di scomuniche e anche di guerre. L’anno scorso ricorreva l’anniversario della Guerra dei trent’anni che, tra gli altri, aveva anche l’aspetto di una guerra di religione. Noi siamo in cammino da quella storia lì, che abbiamo superato e non vogliamo dimenticare, e siamo in cammino verso l’unità. Siamo in cammino verso una comunione di diversità riconciliate, perché se l’unità fosse che vi fate tutti protestanti non funzionerebbe o, comunque, non sarebbe l’unità che vuole il Signore di tutti noi. L’omologazione gli uni gli altri non è la nostra meta, come non lo è l’indifferenza. Ognuno di noi ha la sua specificità. Credo che abbiamo già fatto molti passi in avanti per far sì che le nostre differenze non vengano appiattite, non vengano banalizzate, e non siano un ostacolo nel riconoscere nell’altro, che è diverso da noi, un cristiano come noi. Dunque camminiamo nelle nostre diversità, ma uniti nella confessione dell’unico Signore. Spesso lo dimentichiamo, ma se io vengo alla vostra messa dite lo stesso Credo che diciamo nel mio culto. Allora, uniti in questa confessione di fede, cerchiamo di camminare in direzione dell’unico Signore che è prima delle nostre differenze, che ci chiama tutti quanti, ci guida in questo cammino e, secondo la Bibbia, ci corregge qualche volta e ci aspetta. È dietro ci accompagna, ma è anche in fondo che ci aspetta e noi, così come siamo, camminiamo verso questi incontro. È ormai chiaro a tutti noi che questo cammino richiede un’analisi critica del proprio passato, senza apologie. Nel linguaggio della Chiesa cattolica questo è stato il discorso della riconciliazione delle memorie e delle richieste di perdono. Bisogna riconoscere che, nella nostra storia, abbiamo fatto delle cose, non noi, che oggi riconosciamo essere contrarie alla nostra vocazione».
Dunque, nell’ambito delle Chiese cristiane c’è stata l’assunzione di una consapevolezza critica riguardo al passato in basse alla quale, il teologo valdese ha invitato anche a guardare il rapporto tra la Chiesa cristiana e l’Ebraismo: «C’è stato un rapporto un po’ patologico – osserva Garrone -, ma anche un po’ patogeno perché i disturbi che noi cristiani abbiamo avuto nei rapporti con l’Ebraismo sono stati fonte di sofferenza per gli ebrei. Il rapporto con il popolo ebraico è così delicato, che lo si vive facilmente in modo patologico e con conseguenze patogene perché, ad esempio, la Chiesa attraverso i secoli non ha mai potuto fare a meno di parlare degli ebrei. Leggendo l’antico testamento o i testi del Vangelo si incontreranno gli ebrei e il pastore o il parroco diranno necessariamente qualcosa su di loro. Possono avere insegnato che gli ebrei nell’antico testamento andavano tutti benissimo, perché in fondo sono uguali a noi. Ma degli ebrei nel nuovo testamento si può arrivare a fare una caricatura, dicendo “Cos’è un ebreo nel nuovo testamento? Una fariseo. E che cos’è un fariseo? Un ipocrita”. E poi c’è un altro problema fondamentale, legato al fatto che il cristianesimo è cominciato da una setta ebraica, un movimento all’interno dell’Ebraismo che ha conquistato il mondo. Tutti i barbari, come li chiamavano, sono diventati cristiani. Quindi da una piccola setta perseguitata, perché rifiutava il culto dell’imperatore, essa è diventata la religione dell’imperatore e quando si diventa la religione dell’impero, si ha anche la tendenza a diventare una religione imperialista e tutti diventavano cristiani, meno gli ebrei di cui eravamo figli, quelli di cui non potevamo non parlare. Da un lato questa familiarità e dall’altro questa irriducibile attività, sono alla base di tutte le polemiche che decorrono fin dal secondo secolo dopo Cristo. Nel nuovo testamento, penso alla lettera agli efesini, per esempio, c’è lo stupore del fatto che perfino noi pagani di origine e senza Dio, nel mondo in Cristo, siamo avvicinati venendo accolti nella storia di Dio. Nella lettera di Barnaba, 50-70 anni dopo, si dice che quando si fa un testamento bisogna sapere chi sono gli eredi. E chi sono gli eredi dell’Israele biblico? Noi o loro? E allora si dice che loro, quelli che non hanno riconosciuto Gesù come messia, sono stati diseredati e noi siamo gli eredi. Così la Chiesa comincia a definirsi come il vero e nuovo Israele».
E poi, con l’avvento della città cristiana, si prefigura anche un terzo livello: «Dovendo legiferare – osserva il teologo valdese –, ci si chiedeva se gli ebrei nella città cristiana dovessero essere tollerati o no e che diritti avrebbero dovuto avere. La città cristiana, che deve legiferare sugli ebrei, dura fino all’illuminismo e anche la riforma protestante del sedicesimo secolo è dentro questo schema. E allora qui, con Sant’Agostino, compare una cosa dalle conseguenze che sarebbero state devastanti. Lui commentando un salmo (il 58 della Vulgata e il 59 dell’Ebraicum) dice che “Dio non ha fatto scomparire i suoi nemici, lasciandoli sussistere perché servano da lezione”. Nasce così la nozione della misera condizione degli ebrei, quella misera condizione che era dettata dalle leggi cristiane. Erano le leggi delle città a dire che l’ebreo non poteva far parte delle corporazioni e non poteva esercitare certe attività. Gli si imponeva di fare i banchieri o i prestatori di denaro, perché ai cristiani era vietato e poi perché li si poteva rimuovere a proprio piacimento dall’incarico. Il quarto Concilio Laterano, per esempio, dice che gli ebrei dovevano essere riconoscibili. La stella gialla non l’ha inventata il nazismo, nel Medioevo era una rotella gialla e le donne ebree dovevano avere un velo come le prostitute. Ma perché l’ebreo doveva essere riconoscibile? Perché doveva vivere ai margini della città cristiana, pur essendo visibile per testimoniare il fatto che gli ebrei erano condannati a vivere una vita disprezzata, come castigo di Dio per il loro rifiuto del Messia. In molte cattedrali, come quella di Notre Dame, avete una rappresentazione iconografica in base alla quale ai lati di una delle porte sono raffigurate due donne. A sinistra ce n’è una meschina, triste, con in mano un bastone rotto e si vede che le sta cadendo un libro dalle mani, ha gli occhi bendati. L’Ebraismo è una donna triste, sconfitta e accusata perché non ha capito la verità. A destra, invece, c’è una donna incoronata, prosperosa, sorridente, con uno scettro o a volte con un calice in mano, che rappresenta la Chiesa benedetta trionfante perché ha la verità. La regola era “Gli ebrei ci sono, ma devono vivere un’esistenza triste, per illustrare il fatto che la Chiesa ha sostituito Israele, che ha perso la sua elezione ed è un popolo ormai reietto e che Dio non ha cancellato”. Un pensiero che troviamo ancora presente nel 1948, scritto da teologi protestanti che avevano fatto la resistenza ad Hitler. A Strasburgo e a Zurigo, con la Riforma, il magistrato cristiano-protestante o il teologo protestante che consigliava i magistrato, diceva “Gli ebrei non sono tollerati con gli stessi diritti degli altri cittadini”. In parallelo, nella controriforma, Papa Paolo IV istituisce il ghetto di Roma».
Di questo antisemitismo, a detta dell’esperto, cattolici e protestanti hanno maturato una consapevolezza attraverso una riflessione dapprima faticosa e poi, dopo la Shoah, più risoluta che ha trovato una sintesi con lo storico ed ebreo francese Jules Isaac: «Che – sottolinea Daniele Garrone – ha letto il nuovo testamento, con la conclusione che siamo stati noi ad aver trasformato l’insegnamento di Gesù in un insegnamento di disprezzo. Allora quando vediamo delle pietre d’inciampo, credo che non inciampiamo soltanto nel destino di quelle persone e nel dolore di chi non le ha più con loro, ma penso che dovremmo inciampare anche nelle storie che sono state responsabili di tutto questo. E allora c’è anche l’inciampo nostro in questa storia tragica. E noi, in questa storia, dobbiamo diventare consapevoli non per diventare una nicchia di esperti di Ebraismo ma perché, a partire dal Concilio per i cattolici e con gli atri processi che hanno coinvolto la nostra Chiesa, bisogna arrivare a far sì che la conoscenza invece dell’ignoranza, il dialogo invece della polemica, l’empatia nel rispetto dell’alterità invece che del disprezzo, facciano parte del bagaglio del cristiano qualunque. E insisto sul discorso del cristiano qualunque, perché una delle cose più inquietanti dell’antisemitismo è che questi ultimi sono discorsi che possono travalicare i tempi e funzionare anche se una persona non ha mai visto un ebreo o non ha mai avuto a che fare con la parola ebreo. Come il tifoso che dagli spalti usa il termine “rabbino” senza sapere cosa voglia dire pur sapendo che dirlo a qualcuno è un’offesa. Quindi noi, come cittadini della Repubblica italiana i cui nonni hanno detto “Mai più” volendo voltare pagina, se abbiamo avuto 70 anni di libertà e civiltà è stato grazie a questa svolta e ogni volta che vediamo una pietra d’inciampo, dovremmo anche inciampare in questa storia e ricordarci che quanto successo negli anni ’20 e ’30, quando gli umori della pance hanno preso il sopravvento sui ragionamenti, quando la semplificazione ha preso il sopravvento sulla faticosa gestione dei problemi, quando sembrava di poter indicare un nemico (la storia della Shoah e del nazismo in Germania è iniziata intorno alla frase “Gli ebrei sono la nostra rovina”), tutto quello che è successo è avvenuto intorno a slogan legati ad un nazionalismo organico. E ogni volta che sbattiamo il nasco su di una pietra d’inciampo e facciamo una giornata della memoria, dovremmo pensare a tutto questo».
Da qui la preoccupazione, legata al crescente antisemitismo che ultimamente è riaffiorato in Europa: «In Italia – conclude il teologo valdese – si respira più che altro sul web rispetto a quanto accade negli altri Paesi, ma mi ha molto colpito che vari colleghi ebrei che intervengono sul tema dell’antisemitismo, dicono “Stiamo attenti, perché dove c’è l’antisemitismo non ci si accontenta di prendersela con gli ebrei, poi ce n’è per tutti”. Questo non tanto per il fatto che nei campi di concentramento finirono anche sinti, rom o omosessuali, ma piuttosto per dire che non c’è antisemitismo che non voglia la fine della democrazia, la fine di quello di cui abbiamo beneficiato per 70 anni. Se vogliamo, ne sappiamo abbastanza per non ripercorrere strade che il ventesimo secolo ha già visto».