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Il Museo della memoria del mare. Oggetti migranti sul Mediterraneo.

A pochi chilometri dalle più belle spiagge del turismo tunisino c'è la cittadina di Zarzis, una delle principali basi per la partenza dei barconi degli scafisti. Un ex postino del luogo ha pensato di mettere a frutto la memoria lunga del Mediterraneo e di costruire un museo per mantenere vivo il ricordo dei troppi morti in mare.

Sulle spiagge di Zarzis, in Tunisia, oltre ai corpi senza vita di migranti partiti dalle vicine coste libiche, il mare riconsegna oggetti che queste persone portavano con sé. Sono scarpe, vestiti, documenti, anche giocattoli. Vengono tutti selezionati, ordinati, per essere esposti sull’erba o in installazioni artistiche, a formare Il Museo della memoria del mare dell’artista Mohsen Lihidheb. A costo di sembrare sciocca, chi scrive è rimasta colpita da una storia che non conosce per esperienza diretta.

L’ex postino di Zarzis, Mohsen Lihidheb

È il 1993, e come capita a molti, il postino Mohsen pensa di cambiare vita seguendo il richiamo del mare. Una tentazione prevedibile, il mare, per chiunque sia nato alla luce del Mediterraneo. Più originale è il modo in cui l’uomo trascorrerà da quel momento le sue giornate: camminando lungo 150 km di spiaggia, egli comincia a raccogliere gli oggetti rilasciati dal mare. Non elencheremo quali cose abbia ricevuto dal Mare nostrum: è più curioso se lo immaginate. Dopo aver selezionato gli oggetti, che fino a oggi sarebbero più di settecentomila, Mohsen ha creato nel giardino della sua casa un vero museo, il Museo della Memoria del mare, recintato da mura colorate da cinquantamila bottiglie di plastica gettate anche esse – ahimè – in mare, e di cui alcune contenevano – menomale – messaggi d’amore o altri pensieri ispirati e provenienti da ogni dove.

Proprio al centro del giardino si erge una montagna di scarpe. Sono le scarpe dei naufraghi. Mohsen le ha raccolte ed esposte nel Museo insieme a camicie, giacche, pantaloni, maglioni e magliette recuperate: tutte insieme formano un monumento alla memoria di tanti migranti e naufraghi che hanno perso la vita in mare. Zarzis è una delle principali basi per la partenza dei barconi degli scafisti. Così i pescatori escono in mare e invece di pescare si ritrovano a fare la conta dei vivi e dei morti da recuperare sui barconi affondati. Sulle spiagge arrivano anche direttamente i corpi di uomini, donne, bambini senza vita e senza nome, trasportati per giorni dalle correnti dopo un naufragio a largo della Libia. I corpi sono sepolti nei cimiteri di Zarzis, ma da quando sono diventati troppi c’è addirittura un cimitero lontano dalla città, il Cimitero degli sconosciuti, che raccoglie – esclusivamente – emigranti morti di diverse religioni e nazionalità.

A Zarzis il rapporto con la morte è quotidiano. Non c’è il rischio di dimenticare. Infatti il Museo della memoria del mare non é nato per non dimenticare i migranti, ma per mantenere vivo il loro ricordo attraverso gli oggetti migranti nel Mediterraneo. Mohsen ogni giorno muove le scarpe appese alle mensole, sposta i vestiti, smonta e rimonta le sue opere composte con il “riciclaggio artistico”. Se ogni oggetto noto resterà vivo, vivo sarà anche il ricordo dell’uomo ignoto che lo ha posseduto. Del resto la memoria del mare non può che essere fluida; sempre corrente; mai uguale a sé stessa: sempre viva.

Una delle tante installazioni del Museo del mare, intitolata “Sirena” in omaggio a una ignota bambina naufragata.

Curiosità: vicinissimo a Zarzis c’è l’isola di Djerba, cantata da Omero nell’Odissea come la patria dei Lotofagi, e dove i compagni di Ulisse rischiarono di dimenticare il loro passato. Se a Zarzis c’è la memoria viva degli oggetti migranti nel Mediterraneo, in buona parte del mondo non rischiamo forse di rassomigliare al mitologico luogo dell’oblio di Djerba? Cosa resterà in futuro delle nostre narrazioni sui migranti morti in mare, realizzate con brevi video, parole su un giornale, dibattiti retorici e immagini istantanee?