Suicidio assistito: “Saremo vigilanti, la società perde il lume della ragione”
"Si può e si deve - scrivono i vescovi - respingere la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia"

Ieri, a margine della presentazione del comunicato finale al termine del Consiglio episcopale permanente della Conferenza episcopale italiana, il segretario generale monsignor Stefano Russo è tornato a commentare la sentenza della Corte Costituzionale di mercoledì che, in parte, ha aperto al suicidio assistito: «Non comprendiamo come si possa parlare di libertà – esordisce monsignor Russo -. Qui si creano i presupposti per una cultura della morte, in cui la società perde il lume della ragione. Stiamo assistendo ad una deriva della società, dove il più debole viene indotto in uno stato di depressione e finisce per sentirsi inutile».
Quindi un auspicio, in attesa di leggere il dispositivo della sentenza: «Speriamo – aggiunge il segretario generale della Cei – che ci siano dei paletti forti».
Ma al di là della sentenza emanata dalla Consulta, i vescovi italiani rilanceranno il loro impegno a difesa della vita: «Saremo attenti e vigilanti – assicura il presule – a tutela della vita delle persone, soprattutto di chi si trova in situazioni di disagio, di difficoltà, di malattia».
Solo ora la parola dovrebbe passare al Parlamento: «È anomalo – osserva monsignor Stefano Russo – che un pronunciamento così forte e condizionante sul suicidio assistito arrivi prima che ci sia un passaggio parlamentare. In Europa è la prima volta che accade».
Ciononostante, incalzato dai giornalisti, il segretario generale dei vescovi italiani non ha ulteriormente inasprito i rapporti con le istituzioni italiane: «È difficile parlare di una frattura (in riferimento alla domanda posta su di una eventuale frattura tra Stato e Chiesa) – spiega il vescovo marchigiano -. Siamo sempre stati attenti al dialogo. Avvertiamo la necessità di farci prossimi alla vita della gente. Non ci può stare bene. Agiremo per una prossimità a chi si trova in uno stato di indigenza legato alla salute, a coloro che si trovano in un percorso particolare della loro vita che li vede in situazioni difficili».
In questo nuovo contesto, diverrà sempre più cruciale la figura del medico al quale la Chiesa chiede che venga concessa la possibilità di avvalersi dell’obiezione di coscienza: «Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle – ricorda monsignor Russo -. Chiediamo che ci possa essere questa possibilità. Quando parliamo di libertà, ciò non può non avvenire. I medici sono per la vita e non per intervenire sull’interruzione anticipata della vita delle persone – ribadisce il vescovo, ricordando che il Codice deontologico dei medici non prevede questa possibilità -. Siamo arrivati in modo unitario e compatto a manifestare la nostra attenzione, che non è solo un’attenzione in quanto credenti ma un’attenzione al bene comune».
Nel comunicato finale, il Consiglio episcopale permanente della Cei ha poi approfondito la sua linea di pensiero in materia di suicidio assistito ed eutanasia: «Si può e si deve respingere la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi – scrivono i vescovi -, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia».
A partire dalle parole di Papa Francesco, la riflessione dei membri del Consiglio permanente della Cei si è sviluppata rispetto al tentativo di introdurre nell’ordinamento italiano la liceità di pratiche eutanasiche: «I vescovi – si legge nel comunicato – hanno unito la loro voce a quella di tante associazioni laicali, nell’esprimere la preoccupazione a fronte di scelte destinate a provocare profonde conseguenze sul piano culturale e sociale. Consapevoli di quanto il tema si presti a strumentalizzazioni ideologiche, si sono messi in ascolto delle paure che lacerano le persone davanti alla realtà di una malattia grave e della sofferenza. Hanno riaffermato il rifiuto dell’accanimento terapeutico, riconoscendo che l’intervento medico non può prescindere da una valutazione delle ragionevoli speranze di guarigione e della giusta proporzionalità delle cure».
Quindi un pensiero rivolto a tutti i malati: «Alla Chiesa – conclude il Consiglio episcopale permanente – sta a cuore la dignità della persona, per cui i pastori non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Tale prossimità, mentre contrasta la solitudine e l’abbandono, promuove una sensibilizzazione sul valore della vita come dono e responsabilità; cura l’educazione e la formazione di quanti operano in strutture sanitarie di ispirazione cristiana; rivendica la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza, rispetto a chi chiedesse di essere aiutato a morire; sostiene il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita».