Comunità Giovanni XXIII: “Riaprire le case chiuse è fuori dalla storia”
Il business del mercimonio umano, così evidente a chiunque - sottolinea don Aldo Buonaiuto, sacerdote della Comunità Giovanni XXIII - non si può trasferire nelle casse di uno Stato che rischia di diventare il “pappone” di giovani donne che, per vari motivi, sono costrette in prostitute. Invece di prospettare investimenti sui più deboli, bisognerebbe innanzitutto lottare al fine di contrastare, sia i vari racket della prostituzione che i clienti"

«L’idea di riaprire le case chiuse è fuori dalla storia». Lo afferma Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito alla dichiarazione del vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, che si è detto favorevole alla riapertura delle case chiuse per togliere il business della prostituzione alle mafie: «Il vero problema che la politica ha il dovere di affrontare – sottolinea Ramonda – sono le decine di migliaia di donne, anche giovanissime, costrette a prostituirsi, rese schiave dalla criminalità organizzata e dai clienti che sfruttano la loro condizione di vulnerabilità».
A tal proposito, la Comunità Papa Giovanni XXIII, da sempre in prima linea nella lotta alla tratta, chiede di spezzare le catene che tengono legate queste donne e renderle finalmente libere: «Non basta dire che l’attuale Governo non intende intervenire sul tema – aggiunge Ramonda -. Chiediamo ai governanti di adottare le misure necessarie per liberare queste donne. La soluzione non è l’Austria, nei cui night club non vi sono donne austriache ma persone vulnerabili che provengono da Paesi poveri. La vera soluzione è il modello nordico in cui si prevede la sanzione ai clienti, considerati corresponsabili della riduzione in schiavitù di queste persone. Invitiamo il ministro Salvini a visitare una delle nostre case famiglia, in cui sono accolte le vittime della tratta a causa della prostituzione».
In trent’anni di attività, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha liberato dalla strada e accolto oltre 7 mila ragazze vittime del racket della prostituzione. Ogni settimana è presente con 28 unità di strada e 120 volontari per incontrare le persone che si prostituiscono. È anche capofila dell’iniziativa “Questo è il mio corpo”, campagna di liberazione per le vittime della tratta e della prostituzione a cui aderiscono anche Cisl, Agesci, Azione cattolica, Forum famiglie e Rinnovamento dello Spirito.
Ispirata al modello nordico, la proposta ha l’obiettivo di ridurre sensibilmente il fenomeno, colpendo la domanda e sanzionando i clienti delle persone che si prostituiscono: «Colpisce – commenta don Aldo Buonaiuto, sacerdote della Comunità Giovanni XXIII, nell’editoriale pubblicato oggi su “InTerris” – la concezione sbagliata di coloro che pensano che il drammatico fenomeno della prostituzione schiavizzata si possa combattere riaprendo le case chiuse. Il business del mercimonio umano, così evidente a chiunque, non si può trasferire nelle casse di uno Stato che rischia di diventare il “pappone” di giovani donne che, per vari motivi, sono costrette in prostitute. Dietro a ogni essere umano che si prostituisce c’è sempre un drammatico stato di bisogno e, nella maggior parte dei casi, una condizione di sfruttamento, assoggettamento, schiavitù».
Ricordando che in Italia non è reato prostituirsi, il sacerdote ha poi affermato che: «Invece di prospettare investimenti sui più deboli – suggerisce il presbitero, bisognerebbe innanzitutto lottare al fine di contrastare, sia i vari racket della prostituzione che i clienti. Colpire la domanda significa dire ai trafficanti di esseri umani che la prostituzione non potrà più essere un business e, nello stesso tempo, insegnare alle nuove generazioni il sacrosanto rispetto per la dignità umana di cui il corpo è parte integrante».