Filosofia per la vita – L’arte di ascoltare
Un discorso produce frutto, se chi parla e chi ascolta attendono entrambi ai propri doveri. Un discorso si può giudicare solo dai benefici che produce.
Confessioni di una professoressa ansiosa di provincia. Nei primi anni d’insegnamento, disciplina Filosofia della religione, nel breve tratto dalla mia abitazione al luogo di lavoro, mi sentivo come Rocky prima di un incontro e il copione era sempre lo stesso: ripassare affannosamente a mente la lezione, visualizzare il “ring” per studiare come piazzare i “ganci” e schivare eventuali “colpi bassi”. Quando salivo in cattedra diventavo il severo giudice di me stessa, nella mente risuonava il “Dies irae”. Il mio unico cruccio era riuscire a “parlare bene”, “farmi capire” per trasmettere il sapere agli studenti. L’allenamento prevedeva duro “senso del dovere” e “responsabilità”. Finito l’orario di lezione, per compensare, mi trasformavo in “Tutti insieme appassionatamente”; meno dolce di Julie Andrews, ma più espressiva di Rocky. In fondo poteva continuare così, o no?
Avrebbe potuto, se non mi fossi imbattuta in un breve lucidissimo e sensato discorso di Plutarco (Cheronea in Beozia 46 d.C. – dopo il 119 d.C.) dal titolo L’arte di ascoltare, scritto per un giovane che si apprestava a studiare filosofia. Plutarco, in un passaggio, scrive che «quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c’è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri». Questa è l’idea portante del discorso di Plutarco. La responsabilità nella trasmissione del sapere non è unicamente della persona che trasmette, cioè dell’educatore; anche colui che ascolta ha dei “doveri da assolvere”, perché «per penetrare il cuore dei giovani la virtù non ha altra via che l’udito». La parola virtuosa non arriva a destinazione se non trova ad accoglierla un udito altrettanto allenato. Poiché ognuno di noi, chi un campo e chi in un altro, a volte è “maestro” a volte “allievo”, tutti guadagnerebbero nel conoscere i consigli di Plutarco. Quali sono i doveri di chi parla, quali quelli di chi ascolta?
Il dovere principale, comune a tutti, è l’esigenza della verità: chi parla deve trasmettere il vero, chi ascolta deve aspirare al vero. Quando si parla, allora, va evitato ogni inutile eccesso e vacuità mirando esclusivamente al “frutto”, «prendendo a modello le api e non le tessitrici di ghirlande», perché queste intrecciano una composizione effimera e infruttuosa, mentre le api, tralasciando i fiori bellissimi, vanno a posarsi sul timo, la più acre e pungente delle piante, poi attinto qualcosa di utile volano via al «biondo miele pensando». Al dovere di chi parla di produrre “frutto”, corrisponderà, in chi ascolta, il dovere di non lasciarsi incantare dal parlare fiorito e dagli argomenti teatrali, «pastura di fuchi sofisticheggianti», ma di cogliere il senso profondo del discorso perché si ascolta un “maestro” per «raddrizzare la propria vita con la parola». La mente, infatti, non ha bisogno come un vaso di essere riempita, piuttosto, come legna, di una scintilla che accenda l’ amore ardente per la verità. Il maestro deve accendere con la parola un fuoco di sapienza e verità; chi ascolta non deve comodamente scaldarsi al cospetto del fuoco, ma accendere la propria luce e avviare un processo di ricerca personale per scacciare dalla mente «quanto vi è dentro di fradicio e di buio».
Plutarco afferma che veri impedimenti ad un ascolto fruttuoso sono i nostri difetti morali: l’invidia, che non consente di concentrarsi su quanto viene detto per rivaleggiare con l’oratore; i facili entusiasmi, magari per simpatia o fiducia verso chi parla, perché «lo stupido suole stupirsi ad ogni parola»; il restare indifferente alle critiche dei nostri educatori, come i giovani presuntuosi che accolgono con «un ghigno beffardo e ironico» «una rampogna o un monito rivolti a raddrizzare il loro carattere»; un’estrema suscettibilità alle critiche, da «non saper accettare gli emendamenti con la giusta forza d’animo». Plutarco suggerisce anche alcune regole pratiche da adottare soprattutto nei discorsi pubblici, «perché la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare, come il concepimento e la gravidanza sono anteriori al parto». Ricordarsi che da chi parla c’è sempre da imparare: un bravo oratore chiaramente va stimato ed emulato, ma anche chi offre solo «pochezza concettuale» e un eloquio vanesio è pur sempre utile per fare autocritica, «ripetendo in continuazione a noi stessi il detto di Platone:“Sono forse anch’io così?”». Criticare per buttarsi al contrattacco spezza il logico fluire del discorso, e lascia di chi lo fa «l’idea di una persona che non ama la verità ma le dispute e che è avventata e polemica». Meglio sarebbe ricordare: «non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da un altro, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso, invece, è contrapporre un discorso migliore». Fastidioso è porre continue domande, come «uccellini implumi che stanno sempre a bocca aperta»; da adulatori e ipocriti è invece tributare continui elogi, come chi rivolge a un oratore «epiteti stravaganti come “divino!”,“ispirato!”,“inarrivabile!”, quasi non bastassero più i “bene!”, “bravo!”, “giusto!”, con cui manifestavano l’approvazione i discepoli di Platone». E per concludere, poche annotazioni che farebbero la felicità di qualsiasi oratore: lo sguardo deve essere fisso su chi parla, «anche in presenza di un’esposizione completamente fallita», evitando una fronte corrugata e la noia dipinta sul viso, la posizione scomposta del corpo, le gambe accavallate, sorrisi vari, sbadigli sonnacchiosi, bisbigli con il vicino.
Ammettendo pure che si seguano i consigli, chi può garantire che un discorso – privato o pubblico – produca veramente frutto? Plutarco risponde: «Se un bagno o un discorso non purificano non hanno alcuna utilità». Un discorso si giudica dai benefici che produce. Come uscendo dal barbiere, ci guardiamo allo specchio passando la mano tra i capelli, a maggior ragione uscendo da un’aula o da un dibattito, ognuno dovrebbe esaminare se stesso e valutare se qualche passione sia diventata più debole, qualche fastidio più leggero, se abbia rafforzato determinazione e volontà, entusiasmo per la virtù e per il bene, «se l’anima ha deposto qualche peso soverchio e sia divenuta più leggera e più dolce».
Aggiornamenti di una professoressa di provincia. Nel breve tratto dalla mia abitazione al luogo di lavoro, dopo la lettura di Plutarco la mia unica preoccupazione è diventata: incontrare qualche studente che dica di aver tratto un beneficio reale dalle mie parole, «perché il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene». È più dura di un incontro di Rocky, ma alla fine può essere anche meglio di “Tutti insieme appassionatamente”.
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Fonte delle citazioni: PLUTARCO, L’arte di saper ascoltare, cura e traduzione di Mario Scaffadi Abate, Newton, Roma 2006.
Ho riletto più volte questo articolo, per farlo mio nell`esperienza, in questa mia prima fase di apprendimento, dato che sono ancora una matricola. Da discente quale sono, mi sento fortunata ad avere la possibilità di ascoltare attivamente le sue lezioni. È in grado di farmi entrare nei suoi discorsi ogni volta in modo nuovo, facendo nascere in me la curiosità e l`ispirazione di andare oltre; e proprio andando oltre che mi sono imbattuta in questi articoli scritti con coscienza e sapienza. Prenderò spunto, è un materiale che mi colpisce molto in questo momento della mia vita. Ne faccio tesoro.
Grazie
Incontrarti è sempre bello…..
leggerti produce quella strana sensazione di….. leggerezza, non già mai dell’essere, ma dell’animo….
Posto che mi reputo un buon ascoltatore……
il tuo discorso ha prodotto il beneficio auspicato
Grazie prof