Rigopiano: “Facciamo appello alla fede, la speranza deve essere la nostra forza”
"Era giusto che ci trovassimo qui - ha esordito l'arcivescovo - nel luogo dove iniziarono gli aiuti, luogo dell’attesa, del dolore, ma anche della speranza"
Dal buio dello sconforto, della rabbia e del dolore alla luce della preghiera, della fede e della speranza. È stato questo il passaggio concreto che sabato sera hanno vissuto i mille partecipanti alla commemorazione in memoria delle vittime della valanga sull’Hotel Rigopiano del 18 gennaio scorso, dal tema “In attesa del fiore”, organizzata dall’arcidiocesi di Pescara-Penne presso il Palasport comunale di Penne che, nei giorni dell’emergenza, ha ospitato il centro di coordinamento dei soccorsi e il campo base che ha ospitato i soccorritori provenienti da tutta Italia.
Una loro delegazione c’era anche ieri, Esercito, Carabinieri, Polizia, Vigili del fuoco, Protezione civile regionale, volontari della Protezione civile, della Croce rossa italiana e della Misericordia di Pescara, per stringersi attorno ai familiari delle 29 vittime (le cui immagini sono state proiettate e i nomi scanditi uno alla volta) e pregare insieme a loro. Un momento non facile da gestire, è ancora troppo forte il dolore per un lutto ancora da rielaborare dopo quanto accaduto, alcuni momenti di tensione non sono mancati, ma alla fine tutto si è svolto in un clima di raccoglimento.
È stata la testimonianza di don Andrea Di Michele, parroco di San Domenico in Penne e celebrante di alcuni dei funerali delle vittime, ad aprire la cerimonia: «Ho celebrato una messa a Farindola – racconta -, un’altra a Loreto Aprutino, mentre una terza l’ho concelebrata. Ciò che contraddistingue queste situazioni è la difficoltà di parlare, perché non ci sono parole e anche per un prete è complicato, essendo chiamato a dire cose molte importanti le quali sembrano essere il contrario di ciò che uno pensa, perché quello che vede è semplicemente la morte, la distruzione. Invece, l’annuncio dev’essere completamente diverso trattando della vita nel Signore e nella risurrezione. Così quello che ho cercato di fare è stato condividere il dolore, la sofferenza, piangere un po’ insieme in quanto la morte dei nostri cari ci interpella. Nella loro morte, troviamo anche la nostra morte e quando preghiamo per loro ci siamo di mezzo anche noi».
Del resto, quando certe notizie toccano da vicino il cuore va in subbuglio: «A questo punto – sottolinea don Andrea – la fede diventa una risorsa, almeno per me lo è, illuminandomi, dandomi coraggio e dicendomi che non è tutto finito, che non si può chiudere tutto con un momento drammatico e andare avanti. C’è di più, c’è la presenza di Dio».
Successivamente, all’interno del palasport sono stati spenti i fari e l’unica luce presente è stata la fiammella del cero pasquale introdotto dall’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti, che ha presieduto la cerimonia. Da qui alcuni vigili del fuoco, a nome di tutti i soccorritori, hanno accesso dapprima le loro candele e poi, via via, quelle nelle mani di ogni singolo partecipante fino ad illuminare l’intera struttura: «Il buio – introduce don Valentino Iezzi, vicario episcopale per la Pastorale – che è stato vissuto appena saputa la notizia dell’accaduto. Chi è stato coinvolto personalmente, è entrato nello sconcerto, nel dramma, ma anche chi non aveva familiari è rimasto sconvolto. Il buio durante le ricerche, il buio della paura e dell’angoscia che portano a dire “Ma, forse, speriamo”. Questo buio, dopo il ritrovamento dei rispettivi cari morti, si è trasformato in dolore e disperazione. E dentro questo buio, vogliamo dirvi che c’è bisogno di speranza. Nel buio c’è sempre la possibilità di incontrare la luce, che è Cristo Gesù il quale ci offre la possibilità di avere una speranza e noi possiamo accoglierla. Ogni candela accesa sarà un dire sì alla speranza, anche in momenti drammatici come questo».
Nel buio illuminato dalle candele, ha poi portato la sua testimonianza Gianluca Tanda, fratello di una delle vittime (il venticinquenne pilota marchigiano Ryanair Marco Tanda), relativa a quelle ore di angoscia in attesa di ricevere: «Potete capire quanta paura – ricorda -, quanta ansia, quanta preoccupazione, ma non avete idea di quanto amore e conforto abbiamo trovato con quell’abbraccio che ci siamo scambiati tra sconosciuti. È stata una settimana davvero brutta, l’ultimo giorno ce lo ricorderemo tutti. La speranza era davvero poca, quando facevo la spola tra l’aula magna dell’Ospedale di Pescara e questo palasport, portando foto e materiale utile per il ritrovamento dei dispersi. Quel giorno avevamo tutti lo sguardo perso nel vuoto, aspettando una notizia e pensando “Quando toccherà a me?” Fa paura?” Ogni tanto qualcuno se ne andava e non lo vedevamo più, era toccato a lui».
Quindi il racconto dei drammatici momenti prima di ricevere la comunicazione della morte del fratello: «Non ce l’ho fatta – rivela Tanda -, ho abbracciato uno sconosciuto, ho pianto forte e gli ho chiesto “Fa male, come funziona?” E lui, bugiardo, mi ha risposto “È solo un’impressione, è un corridoio, l’ultima stanza sulla destra. Sono solo scartoffie, tanto già lo sai”. Invece era una grande bugia, quel corridoio era lungo e non finiva mai. Da Penne ci riportiamo tante cose, ma soprattutto tante cose belle. Cercherò di lasciare le cose brutte quassù, portando con me solo le cose positive e spero che anche voi lo possiate fare».
Dopo la lettura di un passo del Vangelo, è stato poi l’arcivescovo Valentinetti a prendere la parola per pronunciare la sua omelia. Un discorso sentito, il suo, più volte interrotto dalla commozione del ricordo di momenti vissuti in prima persona: «Nella vita da vescovo – ha confidato Valentinetti – ho dovuto presiedere il funerale di 27 bambini, tutti insieme, a San Giuliano e ho avuto paura che la cosa potesse ripetersi. La forza, però, dobbiamo trovarla proprio da questa Parola e da Gesù che è la resurrezione e la vita».
L’angoscia di dover ripetere l’esperienza straziante già verificatasi nel 2002 quando, in qualità di vescovo di Termoli-Larino, monsignor Valentinetti dovette presiedere i funerali dei 27 bambini morti sotto le macerie della scuola di San Giuliano di Puglia, crollata in seguito ad una scossa di terremoto: «Nella mia vita da parroco – ricorda l’arcivescovo – ho celebrato tanti funerali difficili, anche di alcuni bambini come un chierichetto che ci ha lasciò all’età di 10 anni, ma quel funerale di 27 bambini è stata l’esperienza più difficile della mia vita. Non è facile guardare negli occhi tanti familiari a cui dire poi difficili parole di consolazione».
«Era giusto, però, – sottolinea – che ci ritrovassimo insieme qui nel luogo dove iniziarono le ricerche, nel lugo dell’attesa, del dolore, ma anche della speranza».
A questo punto, l’omelia ha fatto riferimento al Vangelo letto poc’anzi e in particolare all’affermazione pronunciata da Marta nei confronti di Gesù “Maestro, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto: «“Maestro – continua Valentinetti -, se tu fossi stato sotto quella scuola di San Giuliano quei 27 bambini non sarebbero morti. Maestro, se tu fossi stato ai piedi di questa valanga questi fratelli e sorelle non sarebbero morti”. Ma Gesù risponde con una semplice parola a questa obiezione, che è giusta, legittima. Le domande, i perché, sono inevitabili, però dobbiamo dire una grande verità. Se c’è un enigma, una cosa incomprensibile, inspiegabile, che va al di fuori della nostra capacità di accogliere, questo è la morte. È l’enigma della morte di tanti bambini, è l’enigma della morte di tanti dei vostri familiari. Un’enigma con cui, inevitabilmente, ci dovremo scontrare perché prima o poi, cari fratelli e sorelle, ci scontreremo con la nostra morte. Uno scontro che deve diventare incontro, dobbiamo avere questa forza e se non ce l’abbiamo da soli, la dobbiamo chiedere accogliendo quell’altra e definita parola di Gesù in questo brano “Marta, io sono la risurrezione e la vita”».
Perché, a detta del presule, solo se chiederemo aiuto a questa parola riusciremo a continuare il cammino, altrimenti sarà difficile: «Facciamoci aiutare – consiglia monsignor Tommaso Valentinetti – da persone care, parenti, amici e conoscenti. D’altra parte, è anche bello vivere la solidarietà delle tante persone che si fanno presenti nella nostra vita nei momenti del dolore, ma è anche vero che alla fine l’unica parola che resta è quella di Gesù “Io sono la risurrezione e la vita”».
Ciononostante, non si può far finta di nulla davanti alla morte di 29 persone: «Non vogliamo pretendere – assicura monsignor Valentinetti – di usare parola troppo facili di consolazione. Alla messa dei bambini di San Giuliano ho fatto appello alla fede, perché solo ad essa possiamo fare appello, e questa sera di nuovo faccio appello alla fede. La speranza dev’essere la nostra forza. Qualcuno potrà obiettare “Ma, caro padre, io la fede non ce l’ho”. E qualcun altro mi potrà dire “La fede? Ma chi mi ridà mio figlio, mia figlia, le persone che non ci sono più?”. Ebbene, alla fine di tutto questo, posso dire “Signore, la fede non ce l’ho. La mia fede è debole, è fragile così come lo era nei primi giorni di questa situazione”. Ma ho chiesto allora e chiedo anche questa sera, con voi e per voi, “Signore, dammi la fede, accresci e sostieni la mia fede”».
E se tutto questo non dovesse bastare, l’arcivescovo ha consigliato di affidarsi all’intercessione della Vergine Maria: «Sì – sostiene l’arcivescovo di Pescara-Penne -, perché Lei la fede l’ha dovuta mettere a dura prova sotto la croce. Ha dovuto raccogliere il corpo esanime di suo figlio, così come voi avete dovuto raccogliere il corpo esanime dei vostri cari. Maria, sostienici nella fede».
L’ultima testimonianza è stata quella di uno dei soccorritori giunti per primi sul luogo del disastro, muovendosi sci ai piedi con i suoi colleghi: «Mentre ci avvicinavamo all’Hotel – rammenta Fabio Pellegrini, guida alpina di Penne -, mi hanno fatto notare che stavamo camminando sui detriti di una valanga, ma a me sembrava strano che una valanga potesse arrivare fino a quel punto. Arrivati all’albergo, mentre cercavamo un modo per entrare, abbiamo visto come il tetto fosse scivolato fin sulle scale della piscina e come un albero vi si fosse conficcato all’interno. È stata una scena orribile. Poi sono arrivati i soccorritori della Guardia di finanza con le unità cinofile, che non fiutavano nulla. Nel frattempo, avevo riscontrato come la valanga avesse coinvolto l’Hotel sul lato destro, facendomi pensare che eventuali sopravvissuti – come poi è stato nel caso dei bambini – potessero essere davanti al caminetto, nonché nella sala garden e nella sala biliardo. Grazie a Dio, le mie sensazioni erano giuste».
Al termine della commemorazione, una lunga preghiera è stata rivolta nei confronti dei soccorritori: «Il Signore – auspica l’arcivescovo Valentinetti – vi ricompensi per tutto quello che avete fatto e avete profuso, vi dia sempre coraggio, forza e capacità d’impegno, di solidarietà e di fraternità. Grazie!». Infine, sulle note del canto finale, il presule ha consegnato una pianta d’ulivo bonsai ad ogni famiglia delle vittime, nonché ad ogni organizzazione di soccorso presente,: «Vuole essere questo – conclude il presule – un segno di speranza, della vita che va avanti».