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Kierkegaard, «La peccatrice» e la misericordia

Il discorso religioso di Kierkegaard intitolato «La peccatrice» (1849) è sopratutto un discorso sul perdono e sulla misericordia divina. La peccatrice come immagine dell'amore incondizionato verso Cristo, contro le letture superficiali che la vorrebbero figura del "facile perdono".

Il discorso religioso di Kierkegaard su «La peccatrice», l’ultimo in ordine dei «Tre discorsi per la comunione del venerdì» (1949), ruota intorno all’immagine della donna che piange ai piedi di Cristo e alla quale sono «perdonati i molti peccati perché ha molto amato» (Luca, 7, 47). Si parla, dunque, di quella donna il cui nome è: «la peccatrice»; un epiteto greve che sembra stonare con la tenerezza di chi, ricordiamolo, quando Cristo era a tavola nella casa del fariseo, «venne con un vasetto di alabastro con olio profumato; e si fermò dietro di lui, ai suoi piedi, e piangendo cominciò a bagnarli di lacrime; poi li asciugava con i suoi capelli e li baciava e li ungeva di olio profumato» (Luca, 7, 37-50). È un passo del Vangelo tra i più fraintesi, al quale solitamente si ricorre per escogitare scuse e scappatoie inganni e artifici atti a giustificare i peccati del mondo, e che Kierkegaard invece commenta con rigore, sgranando ogni passaggio inframmezzato dalla formula «Sì, ha molto amato» come una litania. E qual è l’espressione più vera dell’amare molto?

«La vera espressione dell’amare molto – scrive Kierkegaard – è dimenticare completamente se stessi». Pensiamo alle relazioni umane: chi, nell’istante in cui è più occupato, dimentica se stesso e pensa a un altro, questi ama di più; chi, affamato, dimentica se stesso e dona all’altro il cibo di cui dispone, questi ama di più; chi, in pericolo di vita, dimentica se stesso e salva un altro, questi ama di più. Così fa la peccatrice. Ammettere i peccati costa: anche un peccatore che abbia confessato a se stesso, non si accosta con facilità al sacramento della confessione, tergiversa per pudicizia, per intimo riguardo. La peccatrice, invece, andò dal Santo: ella volle rivelare il proprio peccato, e lo fece mettendosi a tu per tu con Gesù. Dimenticando completamente se stessa, la peccatrice amò molto. «Lei ha odiato se stessa: ha amato molto».

Andò dal Santo nella casa del fariseo, ossia dove erano riuniti molti che l’avrebbero giudicata. La donna antepose la volontà di confessare il proprio peccato al rischio di essere esposta al «giudizio duro» degli orgogliosi farisei; antepose il desiderio di incontrare Gesù alla «crudeltà dello scherno» che l’aspettava in quel banchetto. Dimenticando completamente se stessa, la peccatrice amò molto. «Lei ha odiato se stessa: ha amato molto».

Andò dal Santo a casa del fariseo durante un banchetto. Chiunque conosca il cuore umano sa che «c’è solo una cosa più pesante del peccato: doverlo confessare»; c’è solo una cosa più tremenda di custodirlo nel segreto: riconoscerlo. Quante invenzioni ha partorito la «compassione umana», scrive Kierkegaard, per tutelare bene chi decida di confessare i propri peccati! All’interno del luogo sacro, infatti, è in un «sacello» nascosto – ossia il confessionale – che è offerta al peccatore l’opportunità di confessarsi appartato. Sempre la compassione umana ha inventato il «lenimento» per cui chi raccoglie la confessione è nascosto, perché la sua vista non renda difficile al penitente «sgravare la propria coscienza». Sebbene il discorso sia una critica alla chiesa luterana, perché la confessione si svolgeva ormai senza dover enumerare i propri peccati, le parole di Kierkegaard sembrano adattarsi anche ai cristiani (cattolici) contemporanei. Riconoscere il proprio peccato è un atto intimo che punge il pudore di ognuno, così, oggi, alcuni ritengono indebitamente sia sufficiente confessarsi nella propria coscienza, altri ricorrono propriamente al segreto del confessionale o ad un confessore di fiducia, comunque ci si confessa sempre cercando di ridurre al minimo il senso di vergogna e di tutelare al massimo il proprio pudore. La peccatrice, invece, non si tutelò; non si nascose nel segreto del confessionale né cercò un contatto privato e senza rischi con Gesù: andò dal Santo, nella casa del fariseo, durante un visibile banchetto. Dimenticando completamente se stessa, la peccatrice amò molto. «Lei ha odiato se stessa: ha amato molto».

Più si procede nella lettura, più appare chiaro come la misura dell’amore della peccatrice sia tutta nell’obliare, nel dimenticare ogni forma di riguardo verso se stessa; ella ha amato molto perché è stata capace di un amore incondizionato verso Gesù: «la prova cui è stata sottoposta è amare il proprio Salvatore più del proprio peccato». Ai piedi di Gesù la peccatrice non parla, sta in silenzio e piange. Non si giustifica, non trova alibi, perché dimentica se stessa sapendo di non potersi salvare da sola: «è acquietata come il bambino ammalato – scrive Kierkegaard – che si acquieta al petto della madre, dove sfoga il suo pianto e dimentica se stesso», abbandonandosi a chi solo può lenire ogni dolore e bisogno. E quando Gesù dice «le sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato» non parla a lei; non dice: «ti sono rimessi i tuoi peccati perché hai molto amato», perchè Egli parla a tutti. In quel momento la peccatrice diventa «immagine», «parabola» vivente di cosa significhi amare incondizionatamente Cristo. «Questa donna era una peccatrice, eppure divenne ed è un esempio; beato chi le somiglia nell’amare molto!».

Ora il discorso è finito. Ricordando che i farisei condannarono Cristo per essere entrato in contatto con la peccatrice, sentenziando che non era un profeta, tanto meno il Salvatore, non utilizziamo più questa donna per giustificare e minimizzare i peccati del mondo; custodiamola, come immagine dell’amore incondizionato verso Cristo, che solo colma la distanza esistente tra il confessionale e la comunione, il pentimento e la misericordia: «venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi».

 

Le citazioni sono tratte da: S. Kierkegaard, La peccatrice, in ID., Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, a cura di Ettore Rocca, Donzelli, Roma 2011, pp. 98-105.

Immagine: Dipinto Cristo a casa di Simone il fariseo, Pieter Paul Rubens, 1618/20