La felicità … in Piccolo
Quando la felicità si nasconde nelle pieghe di un libro e non solo

Scegliere un libro è un esercizio di stile, o perlomeno dovrebbe esserlo. Un’ azione che può prevedere numerose e diverse motivazioni; ogni lettore la compie partendo da una personale idea di cosa rappresenti la lettura.
Si va in libreria – o in biblioteca- e si prende, solitamente, il testo che in quel momento meglio rappresenta il proprio stato d’animo o magari che meglio si contrappone e l’opera diventa così parte integrante della propria giornata, un interlocutore a tutti gli effetti per misurare le proprie emozioni e il proprio vissuto, uno specchio ove cogliere le proprie imperfezioni e, magari, riderne. Quando questo rapporto dialogico non scatta, non credo che la lettura di un libro abbia una funzione molto diversa da quella del cartello dell’oculista durante una visita di controllo.
Il libro di Francesco Piccolo Momenti di trascurabile felicità (Einaudi, pp. 136) permette in una qualche misura un confronto e un dialogo, se non altro perché l’autore mette su carta tutta una serie di situazioni che nella vita reale ognuno di noi, più o meno, vive: chi non si è trovato ad avere a che fare con la solitudine di una giornata estiva nella propria città o più banalmente con l’ improvvisa e mal tollerata acqua gelata durante una doccia? Novello Caronte, Piccolo ci traghetta -attraverso questa sorta di catalogo dell’allegria di vivere- da un lato all’ altro dell’animo umano e ci mostra come la vita sia degna di essere vissuta nella propria interezza senza scandalizzarsi troppo di alcuni comportamenti, i quali anziché essere stigmatizzati o enfatizzati vanno presi per quelli che sono, e riderci su. Mostra con tratto delicato e a volte irriverente le peripezie di quell’ universo che è l’uomo col «suo interno e il suo intorno» (Niccolò Fabi docet).
Si va dalle piccole e solo in apparenza banali constatazioni («L’acqua quando hai sete, il letto quando hai sonno», «Quanti sms ci sarebbero in meno se si eliminassero tutti i messaggi con scritto: “Ok”?»); a scoperte “epocali” (« […] un’opera di bene è deducibile», «[…] ci sono alcune cose che sono esfolianti»); fino alle confessioni più intime («Mi piacciono le canzoni di Sanremo, e qualche volta mi fanno pure piangere», «Se sto dormendo e suona il telefono, vado a rispondere, e se mi chiedono: “ma stavi dormendo?”, dico sempre: “no”»).
La scrittura dell’autore romano è poco elaborata e in tempi di scarsa capacità di attenzione è un bene; i racconti sono di diversa lunghezza ma comunque non superano mai le cinque pagine e questo ne favorisce la lettura anche frammentata. Insomma è il classico libro comunemente definito “leggero”; un aggettivo quanto mai abusato e connotato purtroppo in senso negativo a livello letterario, ma che invece andrebbe riscoperto, ricordandosi delle parole utilizzate da Italo Calvino nelle famose Lezioni americane, il quale riteneva la leggerezza la prima caratteristica necessaria alla letteratura del nuovo millennio. E forse oggi si è persa proprio l’abitudine a scorgere la bellezza nei gesti e nelle situazioni più semplici, più leggere.
E poi, alla fine, chi l’ha detto che anche un libro leggero non permetta alla mente di innalzarsi e volare verso nuovi e ancora inesplorati lidi esistenziali?