“Bisogna favorire l’apprendimento sociale per vincere l’autismo”
"Attraverso l'Early start Denver model - spiega il professor Vivanti - cerchiamo di insegnare delle strategie psicoeducative, dei comportamenti che una volta entrati a far parte del repertorio di una bambino di 18-24 mesi, creeranno un escalation positiva, perché il bambino ha un sistema cognitivo equipaggiato con processi che facilitano ulteriori apprendimenti. Su questa base dovrebbe crearsi un circolo virtuoso e su quello costruirsi più apprendimenti
«Bisogna intervenire aggredendo le barriere all’apprendimento sociale, non l’autismo, ma le componenti che ostacolano la possibilità di imparare degli altri». È questo il principio alla base dell’Early start Denver model, un nuovo metodo di approccio precoce al bambino autistico fin dai suoi primi mesi di vita illustrato ieri dal dottor Giacomo Vivanti, psicologo e ricercatore presso la Drexel University di Philadelphia, nell’ambito del convegno dal tema “L’intervento precoce nei disturbi dello spettro autistico: esperienze e prospettive”.
L’appuntamento, svoltosi in occasione della Giornata mondiale della consapevolezza dell’Autismo e organizzato dalla Fondazione Papa Paolo VI ed il patrocinio di Asl e associazione CulturAutismo, si è svolto presso la sala conferenze del Centro Adriatico di Pescara: «Una giornata di studio – premette don Marco Pagniello, coordinatore generale della Fondazione Paolo VI di Pescara – in cui mettere a frutto l’esperienza maturata in tanti anni di attività ma soprattutto attraverso cui crescere, perché quello che ci viene chiesto è di prenderci cura delle tante persone che hanno particolare bisogno».
Una realtà, la Fondazione Paolo VI, che da oltre trent’anni lotta contro questa sindrome neuro-psichiatrica che isola l’individuo dal contesto sociale fin dai suoi primi anni di vita: «I nostri centri – spiega la dottoressa Nicoletta Verì, psicologa e coordinatrice sanitaria della Fondazione Paolo VI – attualmente si prendono cura di oltre 250 persone con disturbo dello spettro autistico, nell’età adulta e da bambini, in forma ambulatoriale nelle strutture di Pescara, Chieti, Castiglione a Casauria e Penne, in quella semi-residenziale nelle strutture di Pescara e Chieti e in forma residenziale presso il Centro “Madonna del monte” di Bolognano (Pescara)».
Strutture in cui opera un’equipe multidisciplinare, in formazione continua, che elabora e realizza vari percorsi di abilitazione e riabilitazione: «In particolare – sottolinea la dottoressa Verì -, il Centro “Madonna del Monte” propone un trattamento attraverso la partecipazione a gruppi di abilità sociale, di auto-consapevolezza, nonché ad uscite finalizzate alla terapia occupazionale, a laboratori ricreativi e ad attività di parent training. Successivamente, presso le strutture semi-residenziali, i giovani e gli adulti lavorano al fine di incrementare sia le abilità sociali che quelle dell’autonomia, partecipando a determinati eventi. Ma è il livello ambulatoriale che dà una prima risposta, fornendo una diagnosi e proponendo i percorsi più idonei da intraprendere in base alla fascia d’età di appartenenza».
Si parte da un intervento psicoeducativo individuale, o di gruppo, con relativo trattamento logopedico e attività di parent training, individuale o di gruppo: «Quest’ultima – precisa la coordinatrice sanitaria della Fondazione Paolo VI – è una delle prime esperienze fatte dalla nostra fondazione, sollecitando anche la Asl a identificare il trattamento con la famiglia e come momento di riabilitazione e abilitazione».
L’autismo, al di là di tutto, è un disturbo di cui prendere innanzi tutto consapevolezza: «E in questi anni – aggiunge il professor Renato Cerbo, direttore dell’Unita operativa complessa di Neuropsichiatria della Asl di Pescara – ne abbiamo acquisite di consapevolezze, non come quella che pensavamo di avere 20 o 30 anni fa quando pensavamo che una persona su 2 mila fosse affetta da autismo, mentre oggi ne è colpita una persona su 100. Numeri che fanno riflettere, così come un’altra importante consapevolezza relativa al fatto che la diagnosi non è facile nei primi anni di vita, ma quando essa è possibile il destino delle persone con spettro autistico cambia. Ho sempre creduto nella diagnosi precoce, ma le risposte vanno oltre ogni immaginazione quando vengono condotti dei trattamenti specifici ed efficaci, basati sull’evidenza. Possiamo fare molto partendo da questa nuova consapevolezza, anche per quanto riguarda l’accompagnamento dei pazienti autistici per tutto il loro ciclo di vita».
E proprio sulla diagnosi e sul trattamento precoce del disturbo, si basa l’Early start Denver model sperimentato da dottor Giacomo Vivanti: «Attraverso questo metodo – approfondisce il ricercatore della Drexel University di Philadelphia – cerchiamo di insegnare delle strategie psicoeducative, dei comportamenti che una volta entrati a far parte del repertorio di una bambino di 18-24 mesi creeranno un escalation positiva, perché il bambino ha un sistema cognitivo equipaggiato con processi che facilitano ulteriori apprendimenti. Su questa base dovrebbe crearsi un circolo virtuoso e su quello costruirsi più apprendimenti».
L’Early start Denver model, sviluppato negli anni ’80 dalla ricercatrice Sally Rogers, è dunque la possibilità di insegnare l’apprendimento sociale attraverso l’apprendimento sociale: «Non bypassandolo – osserva il dottor Vivanti -, ma scommettendo sul fatto che un insegnamento che fa leva sulla motivazione sociale, possa creare un interesse nel bambino facilitando l’acquisizione di comportamenti chiave, che realizzano un’infrastruttura che permetterà al bimbo stesso di imparare».
I comportamenti in questione, sono l’imitazione spontanea, l’orientamento sociale, l’attenzione condivisa, la condivisione, il gioco e la comunicazione: «Insegniamo – puntualizza lo psicologo – quei comportamenti che normalmente non avrebbero bisogno di essere insegnati, dato che l’autismo ostacola proprio la motivazione all’essere guidati dall’insegnamento altrui. Per far questo, utilizziamo un approccio educativo costruito in base alla sequenza con cui i comportamenti compaiono nella crescita di una persona dallo sviluppo tipico. Insomma, l’autismo è un problema di pari opportunità e i bambini autistici devono avere le stesse opportunità degli altri, messe a disposizione dalla società, così che da grandi sappiano tutelare autonomamente i propri interessi».
Questo, dunque, il percorso verso cui si indirizza a grandi passi anche la Fondazione Paolo VI sostenuta con entusiasmo dal suo presidente, monsignor Tommaso Valentinetti, il quale ha narrato la sua esperienza di giovane insegnante prima e di parroco poi, nella sua città natale Ortona, alle prese con un ragazzo autistico: «All’epoca – ricorda il presule -, non c’erano le insegnanti di sostegno a scuola, ma questa persona ha sempre trovato il modo di farsi capire, così come in parrocchia è riuscito come gli altri ad accedere ai sacramenti. Successivamente l’ho perso di vista, per rincontrarlo dopo il mio ingresso a Pescara. Precedentemente aveva trascorso un lungo periodo presso le strutture della Fondazione Paolo VI e, una volta terminato, sapeva relazionarsi agli altri in maniera perfetta. Questo ragazzo, oggi, non manca mai a nessuna delle mie celebrazioni eucaristiche e il nostro incontro e dialogo, si rinnova nel tempo».
Da qui l’auspicio per tutte le persone affette da autismo e per i centri riabilitativi della fondazione: «Auguro – conclude l’arcivescovo di Pescara-Penne – che il percorso riabilitativo di quella persona possa essere quello di molte altre, grazie a quello che può essere il cammino, il servizio e l’impegno da mettere nella cura di queste persone che vivono un grande disagio. Di tutto questo la Fondazione ha un’esperienza bella e interessante, per dare il meglio di sé stessa nel ridare capacità e vigore a questi fratelli e sorelle con l’attenzione che quando arriveranno in età avanzata, non rimangano soli. Un problema su cui noi tutti dovremmo interrogarci».