Auguri di compleanno da Seneca
Il concetto di tempo in Seneca, per imparare a mettere a frutto ciascun istante della nostra vita.
Da quando ero piccola, sottopongo i familiari al tormentone del conto alla rovescia per il mio compleanno. Col passare degli anni l’entusiasmo non muta, perchè il compleanno mi riporta all’essenziale: festeggiare il tempo che mi è stato donato e che, di anno in anno, vado tessendo. La vita è il tempo che tessiamo. I fili sono gli obiettivi centrati ma anche mancati; le relazioni aperte e quelle chiuse; i ricordi custoditi e quelli rimossi; le cose accolte e quelle rifiutate. Il filo è il diritto e il rovescio della trama della vita. Nella nostra vita non facciamo altro che tessere fili su un tempo donato. Possiamo srotolare la matassa per ricordare, riavvolgerla per dare senso nuovo a cose vecchie; ricamare sulla vita, tagliare i fili se si usurano. Il giorno del compleanno può essere un’occasione per soppesare la matassa e chiedersi: ho tessuto bene il mio tempo? Di che qualità sono i fili che ho usato? Perché, ricordiamo, il tempo donato un giorno finirà e di noi resterà quello che abbiamo tessuto.
La riflessione sul tempo e sull’uso proficuo o inadeguato che di esso fanno gli uomini percorre tutta l’opera di Seneca, e il filosofo stoico vi dedica l’intero dialogo De brevitate vitae (Sulla brevità della vita), scritto molto probabilmente al ritorno dall’esilio in Corsica (nel 48-49) e indirizzato al padre di sua moglie, il cavaliere Pompeo Paolino. Con un dialogare sagace, Seneca comincia subito col criticare quanti si lamentano per la brevità della vita umana, perché «la vita è lunga, se sai farne uso». La lunghezza della vita non si misura «dai capelli bianchi e dalle rughe», ma dalla capacità di adoperare in maniera proficua il tempo che ci è stato assegnato, perché «tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa ancora più difficile, «tutta la vita dobbiamo imparare a morire». Un errore degli uomini, dal quale Seneca mette bene in guardia, è di farsi depredare del proprio tempo dall’opportunismo e dall’invadenza degli altri, perché il tempo è «l’unica cosa in cui l’avarizia è un bene». Se calcolassimo nel corso della vita di un centenario, scrive Seneca, quanto tempo gli hanno sottratto «i creditori, gli amanti, i superiori e collaboratori, le liti in famiglia, gli impegni futili», e, aggiungessimo, quanto tempo il centenario ha sprecato crogiolandosi in «un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, il frivolo conversare», ci accorgeremmo che il vegliardo ha vissuto molti meno anni di quelli che ha contato e che – in breve – è morto vivendo. Qual è dunque la ragione per cui gli uomini sprecano il proprio tempo? «È che vivete come se doveste vivere per sempre», scrive Seneca: «avete paura di tutto come mortali, ma desiderate tutto come immortali». L’errore è procrastinare la vita, rinviare al domani come se fossimo immortali, consumando la vita tra «la noia del presente e il desiderio del futuro». Come si può vivere in pienezza il tempo, se «Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto?».
In tre fasi si divide la vita: «ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà» (quod fuit, quod est, quod futurum est). Di queste, il presente è breve (his quod agimus breve est), il futuro è dubbio (quod acturi sumus dubium), il passato è sicuro (quod egimus certum). I saggi, che per Seneca sono quanti praticano la vita filosofica, sono gli uomini che dominano il tempo (temporis dominus esse), perchè tengono insieme tutti i diversi momenti – presente, passato e futuro – cosicchè essi acquistino una continuità e una coerenza significativa. Il presente è vissuto in pienezza praticando la sapienza (otium cum studiis), dedicandosi alle «nobili attività dello spirito, l’amore e la pratica delle virtù, l’oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire, una profonda quiete delle cose». Il passato, in quanto ben vissuto, e quindi libero dal rimorso, è recuperato dalla memoria. Il futuro, una volta liberato dall’ansia del timore, è recuperato dalla capacità di progettare. Il fatto di raccogliere insieme tutti i diversi tempi rende all’uomo saggio lunga la vita (longam illi vitam facit omnium temporum in unum conlatio). Altri uomini – gli «occupati», come definisce Seneca con un certo disprezzo – scialacquano invece la vita in un «inoperoso affaccendarsi». Che siano dediti agli affari pubblici (negotia), agli affari privati (officia) o ad occupazioni futili (otium desidiosum), passano la vita sballottati da un impegno all’altro; schiavi del loro presente, temono il futuro e si rivolgono malvolentieri al passato, perché non osano riesaminare le proprie azioni, per non doverne valutare le manchevolezze. Come di uno che una violenta tempesta lo ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sballottato di qua e di là, in balia dei venti che soffiamo da direzioni opposte, non diremmo che ha navigato molto, ma che è stato sballottato molto; così degli «occupati» si può «dire che non hanno vissuto a lungo, ma che a lungo sono stati al mondo». Secondo Seneca, per concludere, c’è una precisa differenza tra la vita (spesso breve) durante la quale – consapevoli – viviamo veramente e il lasso di tempo (a volte lungo) durante il quale non siamo consapevoli di cosa facciamo. Di qui il forte invito a far sì che tutto il tempo ci appartenga, che ogni istante sia messo a frutto e che dunque non ci si accontenti di essere in vita solo «occupati».
Un po’ srotolando il filo dei ricordi, un po’ avvolgendo quello delle previsioni, il compleanno di ciascun uomo meriterebbe di essere sempre festeggiato con l’augurio di Seneca: «Protinus vive!». «Vivi adesso! Adesso, finché il tuo sangue è caldo, questo è il momento per guardare più in alto!».
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Le citazioni sono tratte da: L.A. Seneca, De Brevitate vitae (Dialogorum libri, X), [traduzione nostra].