“Chiamatemi Francesco”: il film sul Papa preoccupato di aiutare gli altri
"Il suo personaggio - sottolinea il regista Lucchetti - era chiaro: ho creduto in lui. Quando ho iniziato il film non credevo: ora credo nelle persone che credono. Ho incontrato una Chiesa straordinaria, persone straordinarie. Sono stato sedotto dal lavoro fatto sul campo"

«Per tutta la vita, l’attuale Pontefice è stato un uomo preoccupato. Ho raccontato quello che era ieri per comprendere quello che è oggi, cioè come un uomo matura e diventa grande e come proprio adesso abbia toccato il punto più altro della sua vocazione: aiutare gli altri».
È stata questa la chiave individuata dal regista Daniele Lucchetti per raccontare la figura del Papa, nel film “Chiamatemi Francesco” uscito ieri nei cinema italiani: «Per trovare uno spunto per il film, insieme con il produttore Pietro Valsecchi, – racconta Lucchetti – sono stato a Buenos Aires sulle tracce di Jorge Mario Bergoglio: ho incontrato persone che lo conoscevano benissimo e altri che si presentavano da noi come suoi amici, ma non lo vedevano da quando erano bambini. C’era il rischio di trasformarlo in un santino. Alla fine, sono riuscito a trovare la chiave di lettura da cui partire per il mio film, parlando con un amico del Papa».
A detta del regista, il quale ha ammesso che questo film è stato un po’ come un innamoramento, se oggi c’è Francesco è anche per gli “inferni” attraverso cui è dovuto passare. Dal film emerge un Bergoglio sempre pronto a spendersi per tutti: «Nel mio soggiorno in Argentina – racconta Lucchetti – sono stato avvicinato anche da persone che sostenevano che fosse stato implicato con la dittatura, ma tutto questo era senza fondamento. Il suo personaggio era chiaro: ho creduto in lui. Quando ho iniziato il film non credevo: ora credo nelle persone che credono. Ho incontrato una Chiesa straordinaria, persone straordinarie. Sono stato sedotto dal lavoro fatto sul campo».
E questo lavoro cinematografico è stato definito una grande sfida anche dal produttore di “Chiamatemi Francesco”, Pietro Valsecchi: «Un Papa – sottolinea – che presentandosi con quel “buonasera” al mondo, il 13 marzo 2013, ha dato una carezza al mondo. Io sono un non credente, ma grazie a questo film mi sono molto avvicinato».
E la pellicola su Papa Francesco, uscito con 700 copie in versione cinematografica oltre a quattro puntante da 50 minuti per la televisione, dopo la proiezione in anteprima di martedì davanti 7 mila bisognosi riuniti in sala Nervi, ha subito fatto registrare i primi riscontri: «Abbiamo cercato un interlocutore in Vaticano – rivela Valsecchi – per la sceneggiatura, ma non abbiamo trovato nessuno disposto a farlo; però, una volta finito il film, lo abbiamo fatto vedere a monsignor Guillermo Karcher, sacerdote argentino cerimoniere pontificio, che lo ha definito veritiero».
Il film sarà venduto in 40 paesi in versione sia cinematografica sia televisiva. Tra un paio d’anni arriverà in tv il film, tra due la fiction, con le scene tagliate per motivi di lunghezza. Secondo il produttore, il film piacerà ai più giovani: «Perché – osserva – insegna cosa sono i valori, cosa significa la dignità di un uomo e cosa vuol dire altruismo».
Ed è stata forte l’emozione e l’esperienza vissuta dagli attori che hanno interpretato Jorge Mario Bergoglio: «Avvicinarmi alla vita del Papa e alla storia dell’Argentina – testimonia Rodrigo de la Serna, l’attore argentino che ha interpretato Jorge Mario Bergoglio dal 1961 al 2013 – è stato difficile e una grande responsabilità. Il copione mi ha facilitato il lavoro. Penso di aver fatto un lavoro dignitoso. Il mio avvicinarmi al personaggio è stato fisico e interiore. La parte più difficile è stata quella di far uscire la spiritualità enorme del Papa. Ho, però, imparato quasi a pregare».
Di spiritualità ha parlato anche Sergio Hernández, che ha interpretato Bergoglio dal 2005 al momento dell’elezione come Papa nel 2013: «Ho tagliato i contatti con il mondo – rivela l’attore -, faccio fatica a ancora adesso a togliermi questo personaggio dal cuore, la cosa più importante era la credibilità. Ho parlato con le persone del quartiere dove ha vissuto. Mi hanno spiegato i suoi atteggiamenti. Ad esempio, quando sta con gli occhi chiusi e sembra che non ascolti, dopo trenta minuti riesca a fare una sintesi meravigliosa di quanto hai detto. Interpretarlo è stata la più grande sfida della mia carriera. Ne sono orgoglioso».