Alpha Draconis: quando il Serpente si chiamava Cristo
È ancora nelle sale cinematografiche, il Noah di Darren Aronofsky, e le polemiche cui esso ha dato il via sono tutt’altro che placate: poco male, in fondo, perché la temperie “culturale” del momento presente non serba duratura memoria di alcunché. A ben guardare, tuttavia, questo è tutt’altro che un segnale incoraggiante o positivo, perché l’attitudine a non indagare mai a fondo le problematiche culturali si coniuga spaventosamente con la tendenza a non conservare mai nel tempo gli insegnamenti tratti da checchessia. Ciò dimostra una volta di più che, se ebbe ragione Paolo VI a dire che «il mondo segue più i testimoni che i maestri», non ne ebbe di meno lo stesso Paolo VI a ricordare che «il mondo soffre per mancanza di pensiero». D’altro canto, però, le numerose e svariate critiche mosse a Noah hanno mostrato anche un aspetto in parte sorprendente della vicenda: almeno quelli che si sono spinti oltre le critiche più banali e superficiali (contro gli effetti speciali, contro l’ambientalismo noachico…) si sono dovuti addentrare nel difficile campo dell’esegesi dei testi sacri, e ritrovarsi in quel campo significa doversi muovere tra le categorie di pensiero che venivano elaborate quando i canoni scritturistici che includevano quei testi (quindi i canoni ebraico e cristiano) si formavano.
Come già qualche volta su queste pagine abbiamo ricordato, il canone ebraico non gode di alcuna sensibile anteriorità su quello cristiano – benché naturalmente i suoi testi abbiano (in parte) preceduto quelli dell’altro – e questo fa sì che i nostri sforzi possano e debbano concentrarsi su un lasso di tempo non eccessivamente diffuso, ovvero dall’epoca intertestamentaria a quella neotestamentaria (I sec. a.C. – II sec. d.C.). Non sfuggirà ad alcuno il carattere tecnico di queste precisazioni, e qui si sta “solo” avvertendo il lettore della (più profonda) complessità della tematica. Ritrarsene significa, tra l’altro, condannarsi a fraintendere fatalmente fenomeni culturali contemporanei come Noah, e la superficialità prende qui alternatamente una delle sue due tremende facce – l’indifferenza o il fondamentalismo.
Tutto ciò lo abbiamo ampiamente dimostrato nell’articolo precedente, in cui ci dedicavamo soprattutto ad analizzare e verificare (ovvero smentire) alcune delle critiche a Noah che più delle altre sembravano disporre di argomenti considerevoli. Restano ancora dei problemi “minori”, posti dal film, che pure meritano di essere considerati, come ad esempio la questione delle mogli dei figlî di Noè, che il testo biblico nomina speditamente e senza far loro carico di tutto il dramma messo in scena da Aronofksy, o quella della maledizione di Cam, formalmente omessa dalla pellicola hollywoodiana; bisognerebbe poi spendere una parola (seria) sulla questione del vegetarianismo e sull’omissione del nome “Dio” dalla scrittura del film. Lo farò una prossima volta, e cercando di avere una particolare attenzione a evidenziare alcuni passaggî a mio avviso degni di particolare nota.
Per questa volta, invece, bisognerà spendere due parole (o qualcuna in più) sul serpente, che da che mondo è mondo non smette di spargere dissensi e discordie, anche con la sua sola presenza. Si sbaglierebbe, però, se si pensasse di poter liquidare la questione proprio e unicamente in base a questo effetto (alla discordia che la sua figura scatena anche tra quelli che semplicemente stanno discutendo di lui): un effetto non diverso, in realtà, causa lo stesso Cristo, che anzi nei Vangeli viene annunciato con questo ruolo quando è ancora in fasce (Lc. 2, 22-39) e giunge perfino a vantarsene nel pieno della sua attività missionaria (Lc. 12, 51). Se ne dovrebbe dedurre che il serpente e Cristo hanno un carattere assai affine – il che è precisamente quanto in epoche arcaiche, che affondano le radici nelle origini del cristianesimo, è stato ritenuto.
Ricapitoliamo, e facciamolo tornando all’epilogo del farneticante scritto di Mattson (non perché gli dobbiamo riconoscere una qualche ragione, ma per ripartire dalla sua obiezione):
Se una pelle di serpente avvolta sul braccio di un personaggio biblico non fa suonare alcun allarme […]… non so cosa dire.
Ribaltiamo la domanda, e chiediamo perché invece una pelle di serpente, di per sé, dovrebbe far suonare un allarme, o meglio perché questo allarme dovrebbe essere immancabilmente inquietante: non è un serpente ciò in cui per opera di Dio il bastone di Mosè – chiamato altresì “il bastone di Dio” (Ex. 4, 20) – si trasforma davanti ai maghi egizî (Ex. 7, 8-13)? Non è un serpente ciò che Dio ordina a Mosè di costruire perché il popolo, ferito a morte (dal morso di serpenti velenosi), guardandolo torni a vivere (Num. 21, 4-9)? E – venendo al Nuovo Testamento – non è a questo stesso passo che Gesù e l’autore del Quarto Vangelo si riferiscono esplicitamente per indicare un tipo della morte salvifica del Messia, in pratica paragonandolo al serpente (Io. 3, 14)? E pure al di là di espliciti riferimenti scritturistici, non è ai serpenti (oltre che alle colombe, e insieme – Mt. 10, 16-18) che Gesù invita gli uomini ad assomigliare?
Forse qualcuno obietterà che il serpente di Mosè potrebbe essere un residuo di un misterioso culto arcaico, a posteriori nobilitato e reso innocuo nello sviluppo evangelico della traccia neotestamentaria: a ciò si potrebbe rispondere anzitutto che non è affatto necessario che una tradizione “bonifichi” tutti gli elementi difficili o scandalosi del proprio sostrato – di solito questi vengono semplicemente sottaciuti fino all’oblio –; si potrebbe poi ulteriormente ribattere che proprio per questo motivo il richiamo di Gesù all’episodio, atto sovranamente libero, si carica di ulteriore significatività, e che il riferimento “sciolto” al serpente (e alla colomba) come paradigma dell’uomo nuovo dovrebbe farci considerare seriamente l’ipotesi che nel bestiario antico il serpente non detenesse il cupo posto che dall’immaginario bassomedievale in qua sembra spettargli in esclusiva. Ovvero, per dirla con Simonetti:
A spiegare la grande fortuna del serpente […] si devono considerare la grande importanza e la funzione rivestite da questo animale in tanti | aspetti della religiosità pagana, quale tipico animale ctonico [sic!], quindi anche simbolo della forza generatrice della natura: animale profetico, considerato spirituale per eccellenza; animale insieme dei morti e della costellazione celeste [M. Simonetti, Testi gnostici in lingua greca e latina, 39-40].
Alla costellazione torneremo tra poco: mettiamo qui a fuoco che l’astuzia – lo dice anche il testo della Genesi – è la caratteristica biblica del serpente, non la malvagità. Piccola curiosità: la malvagità e l’approfittare della minorità altrui si predicano invece della volpe (e difatti Gesù dà della volpe, a Erode, e non della serpe… cf. Lc. 13, 32). Con tutto questo non si vuole affatto dire che la figura del serpente, fino all’apocalittica intertestamentaria, sia una figura “positiva” tout court – anche il Battista (Mt. 3, 7), e lo stesso Cristo (Mt. 23, 33), del resto, almeno una volta, hanno usato l’eponimo animale in senso dispregiativo –, ma al contrario che in essa si rivela sempre anzitutto e soprattutto la potenzialità.
Le correnti ofite (o sethiane), i cui membri l’autore dell’Elenchos ha chiamato “naasseni”, sono normalmente penalizzate, nello studio dello gnosticismo: ciò avviene perché, a fronte di una varietà letteralmente stupefacente di varianti sistemiche, si tende normalmente a prediligere la gnosi valentiniana e a considerare le altre forme di gnosi delle bozze più o meno malriuscite di gnosi. Nessun contesto, però, è più propizio del nostro a considerare con interesse le correnti ofite, che proprio nel non rifarsi ad alcuno scolarca dànno spia di un’antichità “inquietante”. Si consideri che gli eresiologi hanno sempre avuto il massimo interesse nell’individuare gli scolarchi di ogni eresia, perché il poter rimandare una qualsivoglia traditio a un ben preciso ideatore umano (soprattutto distinto dalla cerchia apostolica, e ad essa estranea) costituisce ipso facto una deminutio della propria pretesa veritativa. In eresiologia non è impossibile imbattersi persino in eresiarchi inesistenti che, lungi dall’essere stati gli eponimi di un’eresia, ne hanno mutuato il nome, ottenendone al contempo (e per postulato) l’esistenza (si pensi al fantomatico “Ebione” degli Ebioniti…).
Ora, quanto agli ofiti, si farebbe un torto alla verità storica e alla nostra intelligenza di ricercatori, se li si volesse far passare per dei volgari satanisti: il satanismo affonda, sì, le sue origini nei primi secoli del cristianesimo, ma nel primo secolo e nel secondo non si intravvedono che le sue premesse soltanto. È sì vero che gli eresiologi accentuarono volentieri alcuni elementi del loro simbolismo nel tentativo di screditarli come meri “adoratori del serpente”, almeno da Ireneo in poi; resta tuttavia il fatto che il serpente sembra permanere, nella loro simbologia, ambivalente quanto nella stessa Chiesa.
Affermare questo richiede una precisazione: è proprio vero che anche la stessa Chiesa – quella che presto avrebbe reagito alle eresie distinguendosene come “la grande Chiesa” – non conservò un assoluto distacco dal serpente, conservando invece tracce della sua valenza positiva? Ogni volta che siamo interessati a una ricognizione storica sulle origini del cristianesimo facciamo bene a porre una particolare attenzione a quei contesti ecclesiali primordiali che meno di altri sono stati coinvolti in processi dottrinali e politici posteriori (e questo non per criticare la legittimità di questi ultimi, ma unicamente per ovvia accortezza archeologica): tra questi contesti spiccano senza dubbio le Chiese che per varî motivi si sono ritrovate nei secoli fuori dal raggio politico della nascente Christianitas – ovvero la Chiesa sira, quella giacobita, quella egiziana e (ancora di più) quella etiopica, che fu evangelizzata a partire da Alessandria, e che dunque possiamo presumere conservare molto del bagaglio liturgico-dottrinale originale di quella.
A tutt’oggi, infatti, e ab immemorabili, nella liturgia etiope e in quella copta il grado episcopale è segnalato dall’abbinamento del crocifisso e di un pastorale culminante in una coppia di serpenti intrecciati e rivolti l’uno verso l’altro. Difficile non pensare al doppio ureo che caratterizzava il carattere cosmico e sacrale della sovranità faraonica. Una traccia della diffusione antica di quel simbolo di dualità cosmogonica si trova nel caduceo di Ermes e in quello di Esculapio (donde si ritrova tuttora, in molti Paesi, come simbolo dell’ordine dei farmacisti). Dal contesto greco, in fondo, il doppio ureo non si è mai mosso: ancora oggi lo si ritrova sul πατερίτσα (alla lettera “stampella”, ma indica anche il pastorale) dei vescovi e dei patriarchi ortodossi.
Persino in contesto cattolico lo si ritrova, nell’ordine mechitarista. Quale dei visitatori dell’antichissima basilica di S. Ambrogio a Milano, poi, non ha notato le due colonne poste all’altezza dell’ambone, sulle quali troneggiano rispettivamente un serpente di bronzo e un crocifisso? Leggende popolari volevano, naturalmente, che quei simulacri (almeno il serpente) fossero opera dello stesso Mosè, mentre è noto da fonti storiche essere stato donato dall’imperatore Basilio II nel 1007, ossia a meno di mezzo secolo dalla formale (e tuttora irreversa) separazione tra l’Oriente e l’Occidente cristiani.
Appurate dunque l’origine e la sopravvivenza (per quanto marginali), nel cristianesimo “ortodosso”, del simbolo del serpente come foriero di contenuti positivi, torniamo indietro ai cristiani che furono interpreti così audaci dei testi sacri da spingersi a predicare la pura e semplice divinità del serpente. Ciò che segue è uno stralcio di uno dei più importanti testi eresiologici dell’antichità – l’Elenchos, o Refutatio, attribuito al misterioso “Ippolito Romano” e tuttora adespota –: lo si deve prendere come una “fonte sospetta”, certo (è un avversario degli ofiti, a descriverli!), ma i testi rinvenuti hanno generalmente confermato l’attendibilità delle sintesi degli eresiologi. Leggiamo, dunque:
Questi, chiamati “Naasseni”, non venerano altro che il Naas. Il Naas, poi, è il Serpente, da cui dicono che vengano tutte le cose che sono designate come templi, da “Naas” [in greco c’è gioco di parole tra “Νάας” e “Νάος” ], e che a lui solo – al Naas – è dedicato ogni luogo sacro e ogni rito iniziatico e mistero, e che assolutamente non si possa ritrovare un’iniziazione, sotto il cielo [cf. Act. 4, 12], nella quale non si dia tempio, e il Naas in esso, dal quale il tempio ha preso a essere chiamato così.
E dicono che il serpente è la sostanza umida, come già Talete di Mileto, e che assolutamente nulla, di tutto ciò che esiste – creature immortali o immortali, animate o inanimate – possa sussistere fuori di lui [cf. Io. 1, 3].
E ancora, che a lui siano soggette tutte le cose, e che egli sia buono, e che possieda tutte le cose in sé, come “in un corno di unicorno” [cf. Deut. 33, 17], che distribuisca la bellezza delle altre cose e l’armonia a tutti quelli che sussistono secondo la propria natura e proprietà. < *> si aggira dappertutto, come “ciò che esce dall’Eden” [il fiume, n.d.r.] e “si scinde verso i quattro poli” [cf. Gen. 2, 10-12] [Ps.-Hyppolitus, Refutatio omnium Haeresium V, 13-14].
Sottolineiamo rapidamente poche caratteristiche del testo: da un lato esso è pregno di spirito ellenistico, come si evince sia dall’etimologia sia dal riferimento all’arché di Talete (si dovrebbe discutere più nel dettaglio, ma non è fondamentale per noi, se la nota ellenistica sia propria dei naasseni o dell’autore dell’Elenchos); dall’altro va rilevato come sia condito di riferimenti cristologici e biblici, dunque di chiara matrice giudeo-cristiana. A quest’ultimo rilievo va pure aggiunto che i riferimenti scritturistici sono pressoché equamente divisi tra Antico e Nuovo Testamento (cosa non scontata).
Il serpente è semplicemente identificato col Logos divino, di cui si predicano soprattutto la virtù cosmogonica (e a tal proposito la Logostheologie di Io. 1 si unisce alla dottrina milesia dell’ἀρχή) e l’universale prerogativa cultuale, tale per cui non si potrebbe addirittura concepire un tempio che, in quanto tale, non sia intrinsecamente dedicato a lui.
E come mai proprio al serpente tante culture antiche hanno voluto dedicare tanta attenzione – fino al vero e proprio culto? Se torniamo con la mente all’antico Egitto un indizio è forse rintracciabile: fino al 2800 a.C. (ca.), per effetto del movimento doppioconico dell’asse terrestre, la stella che dalla Terra si percepiva immobile, in quanto estremamente prossima al polo nord celeste, era Thuban, ovverosia “Alpha Draconis”. La stella del Serpente, costellazione che già Erodoto avrebbe segnalato, dopo averla imparata dagli Egizî, era la stella polare, e per gli attenti scrutatori del cielo che erano gli uomini antichi questo non poteva non rafforzare la suggestione che le Scritture provocavano nell’accostare Cristo, stella del mattino e stella polare, al serpente.
Torniamo in ultimo al film di Aronofksy: tutto quanto è stato finora detto potrebbe coincidere con la lettura di Mattson, se solo: a) fosse comprovato il dualismo metafisico/teologico; b) questo si accompagnasse a un dualismo fisico/antropologico; c) dall’incrocio di questi due dualismi scaturissero direttrici etiche antivitalistiche, ovvero avverse all’opera del Creatore. Risulta invece che proprio in quello che Mattson chiama “superamento del Creatore” Noè tramanda agli uomini il suo comando vitalistico – “siate fecondi e moltiplicatevi”. Ciò avviene perché non c’è alcun dualismo fisico/antropologico, ossia l’essere umano non viene mai descritto, nel film, come un’unione di anima e corpo (che non sarebbe neanche sbagliato)… tanto meno come l’imprigionamento di un’anima in un corpo (i vigilanti non sono uomini, ma di loro ho già parlato, illustrando in che senso la loro ratio nel film è propriamente antignostica). Ciò avviene soprattutto, però, perché il dualismo metafisico/teologico è tutt’altro che comprovato, anzi: le rapide sequenze che più volte mostrano il serpente del giardino legano il suo strisciare al gesto di Eva che coglie il frutto e a quello di Caino che uccide il fratello. Dunque il serpente, nel film, non dà buoni consiglî, e la pellicola accoglie sostanzialmente l’idea del peccato originale.
Resta senza dubbio difficile, per noi uomini del XXI secolo, argomentare la comparsa ripetuta di una pelle di serpente avvolta al braccio di un patriarca benedicente, ma l’excursus sopra operato dovrebbe persuadere ampiamente della sopravvivenza, in àmbito cristiano, del significato positivo del serpente, e sono incline a ritenere che le caratteristiche di astuzia e polivalenza (diciamo gli attributi di Ulisse) siano quelle che meglio si prestano a individuare nell’archetipo del serpente il destino dell’uomo stesso – intelligente, volitivo e capace di diventare tutto ciò che vuole (da Dio al nulla).
Certo, questo è un discorso storico che uno storico della teologia cerca di fare tenendo conto di fonti e fatti. Resta comprensibile la perplessità dello spettatore medio davanti al patriarca Noè che benedice la prole avvolgendosi la pelle del Serpente al braccio: ci si può “consolare”, forse, pensando ai vescovi cristiani che a tutt’oggi ne brandiscono due mentre benedicono la Chiesa di Cristo. In ultimo resta vero che se Dio avesse voluto farsi capire in modo inequivocabile e scongiurando ogni possibile fraintendimento, probabilmente non avrebbe ispirato le Scritture…
Alcuni rapidi commenti. Da sottolineare l’accento posto sul significato molteplice dei simboli, in primo luogo dei simboli sacri, in ciò diversi dalla mera allegoria, tra le vere e proprie mancanze della civiltà moderna, qualche volta anche religiosamente travestita, e in ogni caso priva di intelligenza e discernimento. Notevole davvero.
In secondo luogo, in merito al serpente, nella lingua araba la parola che lo designa (al-hayah)) è praticamente la stessa di quella che indica la vita (al-hayyah), cambia solo la doppia ya’ (corrispondente dello yod ebraico). C’è inoltre un proverbio arabo che attesta “l’uomo una volta era serpente”. Ma perché il serpente è simbolo della vita? Ebbene, non è forse in qualche modo una sorta di corporeizzazione di una vibrazione spirituale, vibrazione che deve essere elevata e trasfigurata, come enuncia chiaramente il simbolo dell’elevazione del serpente sul palo, o meglio sulla croce? La ragione dei simboli sacri di ogni tradizione ortodossa è divina, e non può che essere conforme alla verità delle cose, seppur nella molteplice possibilità di interpretazione che esclude la contraddizione se non nel caso della visione miope.