“Accogliamo i rifugiati nei conventi vuoti”
«Servire, accompagnare, difendere». Papa Francesco, ieri pomeriggio, in visita al Centro Astalli di Roma (Servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia), ha ricordato queste tre parole che sono il programma di lavoro per i Gesuiti e i loro collaboratori: «Servire – ha spiegato – significa accogliere la persona che arriva, con attenzione, significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà.
Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione. In realtà, i poveri sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio. La loro fragilità e semplicità smascherano i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella nostra vita il suo amore, la sua misericordia di Padre che, con discrezione e paziente fiducia, si prende cura di noi, di tutti noi».
Durante la sua visita il Santo Padre, presente senza scorta, ha ripercorso la storia del centro di accoglienza gesuita: «In questi anni – ha aggiunto il Pontefice -, il Centro Astalli ha fatto un cammino. All’inizio offriva servizi di prima accoglienza: una mensa, un posto-letto, un aiuto legale. Poi ha imparato ad accompagnare le persone nella ricerca del lavoro e nell’inserimento sociale. E quindi ha proposto anche attività culturali, per contribuire a far crescere una cultura dell’accoglienza, dell’incontro e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani».
Ma tutto questo non è sufficiente: «La sola accoglienza non basta – ha sottolineato il Pontefice -. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità d’imparare a camminare con le proprie gambe. La carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Chiede – e lo chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni – che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona».
E per realizzare questo obiettivo, il Papa ha richiamato ancora l’attenzione di tutta la Chiesa: «Servire – ha ricordato Papa Francesco -, accompagnare vuol dire anche difendere, vuol dire mettersi dalla parte di chi è più debole. Quante volte leviamo la voce per difendere i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti verso i diritti degli altri! Per tutta la Chiesa, è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali».
In particolare, il Pontefice ha invitato anche gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi: «Il Signore – ha rilanciato il Papa – chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti… Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati.
Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire. Superare la tentazione della mondanità spirituale per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi. Abbiamo bisogno di comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto!».