Spigliata come una monaca di clausura
Autrice del libro Mentre vi guardo (a cura di Pierfilippo Pozzi, Einaudi, 2013), Madre Ignazia Angelini è la badessa del monastero benedettino di Viboldone vicino Milano. La madre benedettina, nel libro, parla poco della sua vocazione – perché «era e rimane un mistero»; parla molto dell’attuale condizione della clausura femminile – perché sostiene siano nella chiesa «incongruenze che devono esplodere, scoppiare, perché si ritorni al dono originario»; ancor di più, ci guarda, parla dell’oggi e della crisi esponenziale che viviamo – perché potremmo imparare molto dalla vita monastica.
«Ma qui si trova la pace!» – «La donna monaca è più… più spirituale, più umile, più devota, più umana!»; queste, per Madre Ignazia – che considera l’umorismo suprema virtù umana, sono le frasi che meglio descrivono cosa siano, nel nostro immaginario, i monasteri e i loro abitanti: per alcuni, sono mete privilegiate del turismo spirituale, eccellenti luoghi di cultura e di fruizione estetica; per altri, sono il luogo di restauro dei libri antichi, laboratori farmaceutici, distillerie, o dove si canta il gregoriano; un po’ per tutti, periodicamente, diventano luogo di rifugio per le nostre anime logorate. Nei monasteri – si dice – «si sente un’atmosfera di pace, qualcosa di diverso»; e ci sono i monaci, meglio le monache, che ti stanno ad ascoltare, perché sono «uomini eccezionali e donne angeliche» – un pochino sopra gli altri, o fuori dalla realtà comune, come «tutti i consacrati che pregano per noi, immolati sull’altare della perfezione».
Quanto esposto è un’immagine olografica, scrive Madre Ignazia, perchè il portone del monastero non divide due umanità. Nei monasteri femminili, da tempo, c’è un dibattito molto accesso sulle forme della «separazione dal mondo»: la forma della clausura e i motivi canonicamente consentiti per uscire all’esterno. Madre Ignazia, a riguardo, ha compiuto un gesto che molto la rappresenta, come persona, monaca e badessa: ha rimosso le doppie grate – tipiche dei monasteri femminili – perché le considera «un sequestro del carisma monastico femminile», e una forma storicamente determinata, basata «sull’ideologica esaltazione di una retorica dell’immolazione della donna alla causa di Dio». Vi sembrano le parole di una monaca chiusa nel suo piccolo mondo antico, o inconsapevole di cosa sia la femminilità? Questo rilievo critico – libero, coraggioso, certo sofferto – non significa rifiutare il confronto e la verifica ecclesiale; piuttosto, rappresenta la scelta delle benedettine di Viboldone a vivere la clausura come una presenza incisiva nella storia – così come visse Benedetto, e non esclusivamente come custodi di un’orgogliosa tradizione. I monasteri di clausura dovrebbero avere più spazio dialogico nella chiesa, saper interpretare i segni dei tempi, e anche alleggerire la regolamentazione clericale che, fin dal Medioevo, ha rappresentato «una forma di controllo ma anche di ideologizzazione, perché l’istinto maschile è quello di fare delle donne subalterne»: «Tutte le volte che siamo riuscite ad emanciparci dalla tutela, o incontrare uomini intelligenti che accettassero di stare in dialogo con noi, abbiamo avuto i momenti più belli dell’espressione femminile di vita monastica. Penso a Gertrude di Nivelles, a Ildegarda di Bingen, ma anche a Teresa d’Avila…». Provate ad immaginare una terra devastata – scrive Madre Ignazia: «lì vedrete uomini agitare penne e fogli per inventare grandi soluzioni, e donne cercare tracce di vita tra le rovine, indizi di rinascita». Gli uomini sono più preoccupati di razionalizzare, oggettivare e normalizzare la vita; le donne hanno un intuito vitale, «pasquale», per la realtà umana: riescono a recuperare la spinta vitale dei vari fenomeni umani, là dove gli uomini vedono, ormai, solo il negativo o la morte. È un fatto massimamente significativo che, nell’ora ultima di Gesù, nel cammino, sotto la croce, ci fossero principalmente donne – quelle che già intuivano, nel corpo martoriato del venerdì, la domenica di resurrezione. Questa capacità di intuire la vita oltre la morte – di anticipare il futuro – è l’intuito spirituale delle donne, che deve continuare a fluire, come energia vitale, nel monachesimo femminile, quindi nella chiesa e nella storia.
Senza dubbio le parole di Madre Ignazia sono coraggiose, volitive, ma non c’è nulla di eversivo – si badi bene; c’è solo l’attesa, paziente ma vigile, di un tempo in cui si realizzino verità già intuite dalla chiesa. Ad esempio, il Concilio Vaticano II non ha già espresso la necessità di tornare a valorizzare la figura femminile nella chiesa, in dialogica apertura? E sempre il Concilio Vaticano II, nel decreto Ad Gentes, non dice «appartiene al pieno radicamento della Chiesa in un luogo umano, la presenza di una comunità monastica?» La migliore ortodossia, densa di tenace speranza, è quella di Madre Ignazia, che sogna un tempo in cui ci siano monasteri nei luoghi più diversi della vita: nelle carceri, nelle università, negli ospedali. E sarà un tempo nuovo per la chiesa nella storia.
Perché questo? A cosa gioverebbe, se ci fosse un piccolo nucleo monastico in ogni espressione umana?
Il monastero è una risorsa per tutti, perché è un “laboratorio di umanità”. Il monastero non è un luogo dove andare, ma un modo di essere: è la dimensione esistenziale di chi ha scelto di «stare alla radice essenziale dell’umanità». Allora, qual è questa radice essenziale dell’umanità?
«Ne sono convinta – scrive Madre Ignazia – la radice essenziale dell’uomo è la relazione»: «la vita umana è di per sè cenobitica, da koinos e bios, perché è vita in comune». Ogni uomo è una molteplice e caledoiscopica rete di relazioni, e, di conseguenza, si costruisce umanamente nella misura in cui sa costruire relazioni. Di contro, il mondo contemporaneo scorre nell’opposta direzione dis-umanizzante, perchè vuole solo individui-monadi; ci dicono che l’uomo ha come fine la “realizzazione di sé”, e che per realizzarti “tutto dipende da te”. L’umanità, così, è diventata la somma di schizzofreniche autoproiezioni: individui scissi che, nei diversi contesti ordinari, cercano di sembrare diversi uomini eccezionali. Uomini ambiziosi e competitivi che intessono relazioni posticce, inaffidabili, basate sull’estemporaneo gradimento del «mi piace/non mi piace (l’emozione) o mi conviene/non mi conviene (utilità)».
Rispetto al modello contemporaneo e dis-umanizzante, il modello monastico si propone come alternativo, «per essere acquisito come forma universale della relazione umana». Il progetto educativo monastico, infatti, punta all’uomo riconciliato con l’umanità, l’uomo dal «cuore uno»: un monaco ha un unico volto davanti alla sua comunità, non è eccezionale ma unico – nel bene e nel male; non si educa alla perfezione, ma impara a «mettere a tema l’imperfezione» – nel senso che ogni giorno ricomincia da capo, come un principiante della vita; sopravvive solo se sa tessere relazioni affidabili con tutti, perché nel monastero non vivi con chi scegli ma con chi capita.
La garanzia del progetto educativo monastico – precisa Madre Ignazia – è il Vangelo; la “palestra” è l’Eucarestia, la Liturgia e la Preghiera; Gesù è il «Maestro di relazione».
Gesù ha passato trent’anni a vivere nell’ordinarietà, nel gratuito e semplice ascolto degli uomini; non ha mai scritto nulla, se non una volta sulla sabbia; poi tre anni di vita pubblica, per lasciare a chi lo fraintendeva, lo tradiva, lo rinnegava, la sua testimonianza: «una vita che si consegna in apparente assoluto fallimento, a persone inaffidabili, per ricordarci che Dio ha abitato l’umano più comune». Madre Ignazia – scegliendo Gesù come «Maestro di relazione» – è la monaca che – in ospedale, davanti ad una donna che si professa atea ma divide con lei la sua razione di pasto – non esita ad affermare che «la gratuità del prendersi cura dell’altro è proprio il timbro del divino nell’umano, più che l’ostentazione di un codice morale inoppugnabile».
La scelta monastica ha un senso che vorrebbe condividere consapevolmente con ogni essere umano: «Il mondo prima e il mondo dopo di me non cambia perché io ho realizzato una fabbrica e nemmeno perché ho partorito cinque figli, […] ma perché ciò che ho vissuto, il modo di esprimere la mia umanità, ha comunque messo in circolazione delle energie per cui è bello vivere, “vale”. Io credo che sia la capacità di una persona di elaborare un gusto della vita a costituire la sua realizzazione».
Questo pensa Madre Ignazia ma tanto, lei, rappresenta l’aspetto comune della comune umanità e al mondo contemporaneo, questo, non interessa. Eccetto gli uomini comuni, naturalmente.