Specchio, specchio delle mie brame ….
Provo sempre tanta emozione ogni qualvolta sfoglio libri di fotografie che ritraggono immagini di persone anziane rivestite di semplicità, con le loro rughe profonde, le loro espressioni spontaneamente donate all’occhio del fotografo, il loro velo di malinconia che custodisce con discrezione uno scrigno di ricordi su cui meditare. Ma ancor di più quelle immagini mi rimandano a tutte quelle volte in cui una persona anziana mi ha intrattenuto mostrandomi foto della sua giovinezza, accompagnando questo gesto di garbata ostentazione con racconti pudichi di come fosse stata corteggiata e apprezzata per la sua bellezza.
Un corpo avanti negli anni, sebbene mostri un’inevitabile trasformazione, non riesce a soffocare del tutto i segni di una bellezza che, invece, si percepisce ed affiora come testimonianza di un corpo in continua evoluzione ma, soprattutto, di un corpo custode di emozioni che continuano ad accompagnare l’esistenza di quella donna o di quell’uomo.
La bellezza, anche di fronte ad un corpo avvizzito, piegato dal tempo, stanco, o canuto, è allora la capacità di saper accogliere l’altro, di saper incrociare lo sguardo di un uomo o di una donna e condividerne la vastità di un mondo fatto di sensibilità, di affetto, di amore all’interno di uno spazio così limitato come quello di un corpo umano. La gratuità di questa condivisione di intima bellezza supera il limite della bellezza esteriore, la quale diventa motivo di repulsione proprio quando viene ad interrompersi quel legame. È allora, e solo allora, che si può provare repulsione sia per un corpo invecchiato che, addirittura, per il Cristo martoriato e crocifisso.
La bellezza superficiale diventa, in questi casi, prepotentemente, condizionante rispetto alla bellezza della libertà e della dignità dell’uomo che, dal canto loro, nascono proprio dal donare il corpo ed il pathos contenuto nello sguardo.
Addirittura San Paolo, nella seconda Lettera ai Corinzi, arriva ad affermare con coraggio che il nostro corpo, attraverso le prove fisiche e morali, è la riproduzione nonché la continuazione della Passione di Cristo.
Se per qualcuno il declino fisico del proprio corpo non conduce alla disperazione ma è contemplazione di una bellezza intima e misteriosa, esistono molte altre situazioni nelle quali l’esteriorità non solo del corpo umano, ma anche del mondo intero sono concepite come un laboratorio nel quale sperimentare forme nuove di vita in totale assenza dell’azione di Dio nel mondo. Il corpo umano diventa un oggetto da analizzare da un punto di vista tecnico al fine di poterlo maneggiare, modificare, potenziare, abbellire.
Insomma il corpo viene ingabbiato in una logica oggettivizzante che lo espone ad una esibizione che soffoca, fino ad annientare completamente quel mondo di sentimenti e di desideri che rendono ogni corpo umano permeabile all’altro. Per Fabrice Hadjadj il corpo di ognuno di noi, lo sguardo di ognuno di noi, può essere definito un concentrato di sguardi, o meglio “è l’universo interno che si concentra e si porge singolarmente. In un volto, è l’altro che si rivela, …, epifania di una trascendenza che nelle foto formato tessera si offusca. Il volto, d’altronde, è sempre quello dell’altro, poiché il mio proprio volto, esposto a tutti, si sottrae a me stesso, e quando mi guardo in uno specchio, è uno strano personaggio che viene a comporsi, quasi come una maschera”.
Purtroppo, quando l’esteriorità del corpo diventa una prerogativa irrinunciabile, è allora che stiamo mostrando all’altro un’immagine di noi “formato tessera”, per dirla ancora con le parole di Hadjadj, che impedisce quell’assorbimento dell’altro in noi.
Mi viene da pensare che l’operazione di estetizzazione spinta agli eccessi, che la cultura contemporanea impone al nostro corpo, ha in qualche modo interrotto quell’esercizio filosofico che consiste nel saper passare da “bello” come aggettivo, a “il bello” come sostantivo, ovvero dall’attributo all’essenza. Questo cortocircuito rischia di svuotare l’attrazione dei corpi dell’affetto che, invece, predilige il movimento verso l’altro, verso una comunione spirituale e carnale che non genera conflitti né sminuisce l’uno a causa dell’altro. Sant’Agostino direbbe che anche quell’unione concorrerebbe a far sì che “tutte le membra e le viscere del corpo incorruttibile, che ora vediamo distribuite secondo le diverse funzioni che sono necessarie, concorreranno a lodare Dio”.
L’esibizione di un corpo che non è in grado di rimandare alla bellezza del mistero dell’unione, è un corpo che rischia di inaridire perché con l’oggettivazione spinta in alcuni casi all’estremo, non ha nulla da trasmettere in quanto tutto è già manifestato dalla forma. Nulla più è in grado di affiorare da “sotto la pelle” che possa essere oggetto di scoperta e desiderio dell’altro.
La ricerca della perfezione ad ogni costo del corpo umano, in grado di soffocare ogni espressione del tempo che passa, non è molto diversa dal processo di plastinazione inventato da Gunther von Hagens su corpi donati, una volta privi di vita, ai quali, asportando loro la pelle, non sono più riconducibili all’identità del donatore ma diventano semplici oggetti in mostra la cui macabra bellezza è nell’aver impedito al tempo di corrompere la carne o di far assumere ad un corpo senz’anima posizioni teatrali.
Dinanzi ad un corpo vivo manipolato ed uno morto sottoposto a plastinazione, lo spettatore assiste in ogni caso ad una messa in scena alla quale, con un pizzico di imbarazzo, sente convivere in lui sentimenti contrastanti che da una parte lo inducono a mostrare meraviglia per il risultato formale assunto dal corpo e, dall’altra, provare pietà per un corpo che sembra essere stato violato nella sua dignità.
Nell’arte contemporanea gli artisti, attenti osservatori della realtà in cui vivono, hanno imparato ad usare il corpo non solo come uno strumento di lavoro, ma anche per essere studiato nella sua condizione di instabilità, o limitatamente alla sua componente invisibile e dai confini indefiniti, ma anche in relazione alle paure, ai pericoli ed alle pruriginose questioni legate alla sessualità umana.
Il proliferare sul corpo delle pratiche di chirurgia estetica, tatuaggi, piercing, scarificazioni, hanno sicuramente stimolato l’arte contemporanea la quale spesso ha fatto proposte estreme, ai limiti dello scioccante, al fine di mettere in luce la trasformazione del corpo umano in un supporto plasmabile al quale far assumere un’identità transitoria, costruita a tavolino.
Spesso i lavori degli artisti contemporanei interpretano lo svuotamento del corpo di una propria anima, denudando il corpo stesso, ostentandolo al pubblico come oggetto senza soggetto e, comunque, privato di relazioni interpersonali. Un corpo che continua, anche nel mondo dell’arte, la sua messinscena accentuando la distanza con lo spettatore-altro senza un volto, senza una voce, senza un nome. Un corpo che sembra non aver più bisogno di nulla e di nessuno e che si gode il sapore di una libertà da ogni forma di legaccio che per troppo tempo ha circoscritto la sua esistenza alla corruttibilità della carne, alla morale cristiana, alla psiche. La liberazione del corpo segna anche l’inizio di una mutazione del corpo a livello genetico, sessuale, cognitivo senza precedenti.
Ron Athey è un artista per il quale il corpo è il miglior modo per esplorare con lo spettatore i limiti fisici e mentali di questo. Le sue apparizioni in pubblico sono delle vere e proprie performance che non possono non lasciare scioccato chi guarda: automutilazioni, tagli, incisioni, perdite di sangue.
Scene forti, cruenti, in cui l’algidità dell’artista durante la sua messinscena, si contrappone all’apprensione dello spettatore che assiste a rischiose pratiche masochiste, anche pericolose per lo stesso pubblico che, addirittura, in un’occasione ebbe timore di essere contagiato dal virus dell’HIV a causa del sangue riverso sul palco di Athey, omosessuale e sieropositivo.
Il lavoro di Ron Athey ruota attorno a tematiche forse scontate ma anche sintesi dell’attuale secolarismo: sangue, sesso e religione. La sua opera, discutibile perché trasgressiva o perché non riconducibile all’idea comune di opera d’arte, rimane comunque una testimonianza forte di come la società contemporanea viva le angustie spirituali e se ne liberi lasciando uscire questo dolore interiore attraverso delle ferite auto-inferte al proprio corpo; meglio ancora se queste azioni avvengono in seno ad una ritualità pseudo religiosa che fa da cornice all’atto in sé e lo rafforza dandogli quasi la parvenza di sacralità.
Athey (vittima sacrificale) si immola davanti ad un pubblico (i fedeli) su un altare (il palco) e questo sarebbe sufficiente per confermare quanto affermò René Girard e cioè: “Dopo essere emersi dal sacro più completamente delle altre società, al punto da ‘dimenticare’ la violenza fondatrice, perderla interamente di vista, noi stiamo per ritrovarla; la violenza essenziale ritorna su di noi in modo spettacolare, non soltanto sul piano della storia ma anche su quello del sapere. Ecco perché tale crisi ci invita, per la prima volta, a violare il tabù che non hanno violato, in fin dei conti, né Eraclito né Euripide: cioè a rendere pienamente manifesto, in una luce perfettamente razionale, il ruolo della violenza nelle società umane”.
La componente razionale nel sacrificio a cui Athey si sottopone sta proprio nell’impostarlo secondo una rigida sequenza programmata che deve avere un inizio ed una conclusione, non importa se il messaggio non è comprensibile a chi assiste.
È la parodia stigmatizzata di quanto avviene in sede di preparazione dei palinsesti televisivi in cui questioni culturali, religiose, sociali, economiche, ecc., quotidianamente, vengono spettacolarizzate, miscelate, banalizzate. L’unica cosa che viene enfatizzata è la capacità del mezzo di integrare tra loro tutto questo e di contribuire a far collassare, anzi schiantare letteralmente la nostra personalità sulla superficie piatta e dura di uno schermo.
Ron Athey è solo uno dei tanti esempi di artisti contemporanei che si serve del corpo direttamente o indirettamente per denunciarne le fobie, le paure, i tabù e lo fa sicuramente nella maniera più provocante, volgare, inquietante, repellente.
A questo punto viene da chiedersi quale sia il senso di quanto sottopostoci sia dall’arte che dal mondo dei media. In un’epoca secolarizzata, in cui forte è la crisi del senso religioso, l’arte, come i media, puntano a diventare per tutti noi, più o meno consapevolmente, i nuovi riti, le nuove religioni. È proprio attraverso la spettacolarizzazione di tutto quello che storicamente il senso comune ha sempre assimilato come reale, come la morte, il dolore, il tempo che scorre irreversibilmente, la bellezza del corpo che sfiorisce, ecc., diventa, invece, la messinscena all’interno di una nuova ritualità, di una nuova forma di religione che nel celare le paure e gli orrori che rimandano a quei fatti, in realtà nel momento stesso in cui li narra, ne rivela la loro ineludibile esistenza e le relative conseguenze.
L’ansia per un corpo in divenire non viene dunque placata dall’arte, questa al contrario l’accentua ed alimenta quella che potremmo chiamare la cultura dell’evasione come l’uso di droghe, di psicofarmaci, di interventi estetici, di anabolizzanti, ecc. quale risposta alla consapevolezza di perdere quella parte del presente della propria vita fatta di apparenze, scialba bellezza, per far spazio ad un divenire del reale fatto di senso e di non senso.
Bauman direbbe che stiamo vivendo una contrapposizione tra ordine e disordine. La modernità ci spinge ad imboccare la strada dell’ordine nel momento in cui avvertiamo un senso di disagio tutte le volte che “non siamo in grado di interpretare correttamente una situazione e scegliere tra due azioni alternative”. L’ambivalenza ci infastidisce, perché è seguita da una indecisione che non sappiamo, o non vogliamo, più gestire. Meglio affidarci ad una percezione visiva che inventa un tempo che non evolve, un tempo sotto l’egemonia dell’occhio.
Ed è per questo che siamo attratti dall’ordine, dalla possibilità di poter manipolare gli eventi come se non fossero caratterizzati da causalità alcuna. L’ambivalenza è contrastata dalla manipolazione, dall’ingegneria, dalla progettualità, in una sola parola dalla possibilità di gestire il caso. È in questo senso che “niente è più artificiale della naturalità; niente è meno naturale che raccomandarsi alla clemenza delle leggi della natura. Potere, repressione e azione mirata si collocano a metà tra la natura e quell’ordine creato socialmente, nel quale l’artificialità è natura”.
Per Bauman la modernità è allora sintetizzabile proprio nella contrapposizione di ordine e caos che definisce “gemelli moderni, concepiti nel mezzo dello sconvolgimento e del crollo del mondo ordinato da Dio”. Anzi è appena il caso di aggiungere che “l’esistenza moderna è perseguitata e spinta all’azione incessante dalla coscienza moderna; e la coscienza moderna è la paura o la consapevolezza dell’inconcludenza dell’ordine esistente; è una coscienza ispirata e mossa dal presentimento dell’inadeguatezza, o meglio dell’irrealizzabilità del progetto di pianificare l’ordine ed eliminare l’ambivalenza; è la coscienza della casualità del mondo e della contingenza delle identità che lo costituirono”.
Dice bene Bauman quando afferma che, ai nostri giorni, ci è difficile pensare il mondo ordinato da Dio. Forse, aggiungiamo noi, perché si è affievolito, se non spento del tutto, l’interesse dell’uomo contemporaneo per la salvezza dell’anima. Quello che conta è, invece, un mondo migliorato e reso vivibile dalla mano dell’uomo. La salvezza, così come ci viene promessa dalla fede, sembra essersi dissolta in una fede più convincente come quella per il progresso terreno. Già l’allora Joseph Ratzinger andava affermando che “la futura salvezza dell’anima è l’antagonista della felicità presente; la promessa cristiana appare come la restrizione e la minaccia del presente terreno … [N]ella coscienza pubblica questo stadio appartiene ampiamente al passato e ciò in virtù di un singolare sviluppo: quanto più la ‘felicità’ si fece libera, quanto più sfrenatamente essa impose le proprie pretese a scapito della ‘salvezza dell’anima’, tanto più essa diventò misera e vuota”.
Felicità, felicità ed ancora felicità è questa la formula vincente a cui l’uomo contemporaneo cerca di anelare, ad iniziare da quell’inganno visivo che opera manipolando il proprio corpo, senza rendersi conto che ha ceduto a quelle stesse tentazioni a cui Cristo dovette reagire nel deserto (Mt 4,1-11) e contro le quali ci dette anche la soluzione per contrastarle. Antonio Bello sintetizza efficacemente quelle prove di Gesù come le tentazioni delle tre P: Profitto, Prodigio, Potere; così come ricorda che solo altre tre P possono essere la chiave per avere la meglio su un’arida strumentalizzazione di Dio e dell’uomo, ovvero: Parola, Progetto, Protesta. Per Antonio Bello la Chiesa, e quindi ognuno di noi, deve riscoprire “il potere dei segni”, ovvero quel “potere povero che dà fastidio, perché disturba il manovratore. Ma conduce finalmente ai piedi della croce, sulla quale Gesù Cristo, nostro indefettibile amore, con i segni del fallimento, ci ha conquistato la libertà”.
È allora che anche la bellezza di un corpo che invecchia diventa un segno che dobbiamo riscoprire, un “potere povero” non diverso dal potere del deserto che il popolo ebreo ha attraversato con fiducia, sperimentandone la forza silenziosa della spogliazione, della nudità e della riscoperta di una “identità che va ben oltre le livree dell’apparenza”.
Evagrio Pontico, uno dei Padri della Chiesa, soleva suggerire: “La stima nella vecchiaia è la conseguenza dell’essere stati operosi prima della vecchiaia; l’essere attivi nella giovinezza è una garanzia per essere stimati nella vecchiaia”.
Riscopriamo la vecchiaia come investimento e non come un costo … anche sociale.