L’ «Anno della Fede-bis»
La solennità di Cristo Re appena trascorsa ha offerto alla nostra rubrica l’occasione per ricordare il ruolo centrale che il calendario liturgico riveste nella vita della Chiesa. Esso, scandendo e valorizzando i diversi momenti e periodi dell’anno, consente ai fedeli di rileggere le proprie giornate alla luce della Parola, in un percorso fraternamente condiviso e sotto la guida della Madre Chiesa. Anche in questo, infatti, la Chiesa è Madre: nel saper scegliere modi e tempi che siano adatti a significare e a trasmettere il messaggio divino, al fine di guidare ed educare i suoi figli. Come abbiamo visto (link), Pio XI, constatando il disorientamento, la perdita di fede e il suo aperto e sprezzante rifiuto («irreligione»), la secolarizzazione e la conseguente crisi che coinvolgeva i valori più autentici sui quali si era fondata una società allora non più convintamente cristiana, decise nel 1925 di istituire la solennità di Cristo Re. Il suo proposito, pastorale e paterno, era, come disse egli stesso, «provvedere alle necessità dei tempi presenti»: in definitiva egli tentava, attraverso una solennità liturgica posta a conclusione dell’anno e che apriva la strada al tempo forte dell’Avvento, di rimettere un po’ in ordine le cose, ricordando a menti e cuori immemori, negligenti e confusi, a chi appartengono «il Regno, la Potenza e la Gloria» assieme a tutto il resto, umanità compresa.
Con la stessa paterna premura, l’attuale pontefice Benedetto XVI ha indetto per il 2012-2013 l’Anno della Fede. Iniziativa lodevole, anche se non proprio originale: già nel 1967-1968 papa Paolo VI aveva dedicato un intero anno alla prima delle virtù teologali. Ma è proprio qui il centro della questione. Per quali ragioni due pontefici, tra loro tanto simili e tanto diversi, a distanza di quarantacinque anni l’uno dall’altro, hanno ritenuto opportuno prendere la medesima iniziativa? Cosa accomuna i fedeli, la società, il mondo, lo stato della fede del 1968 con quelli del 2012? Cosa rende necessario, dopo quasi mezzo secolo, tornare a parlare di fede?
Sul finire degli anni Sessanta, la Chiesa viveva un periodo piuttosto movimentato. Il Concilio Vaticano II, da poco conclusosi tra polemiche ed entusiasmi, non era stato del tutto compreso e accolto; anzi, ancora peggio, in alcuni ambienti ecclesiastici era stato frainteso al punto tale che, in nome di un rinnovamento all’interno della Chiesa, chiamata ad aprirsi senza pregiudizi e limiti alla modernità, le principali verità di fede rischiavano di essere travisate e la dimensione soprannaturale della Chiesa e della fede finiva per essere negata. Inutile temporeggiare sul clima di contestazione e polemica accesa in cui ardevano gli spiriti sessantottini, che certo non risparmiò l’ambito religioso, come rappresentativo di un ambiente vecchio, ottuso e austero, a cui si opponeva una mentalità giovane, aperta e fin troppo permissiva. C’era bisogno allora di riscoprire la fede vera, fondata su colonne eterne e immutabili, perché «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8) e il suo insegnamento non può essere piegato a interpretazioni arbitrarie né alle logiche di una società che pretende di fondare la propria modernità sull’abbattimento e la negazione del passato. L’Anno si concluse il 30 giugno 1968 in Piazza San Pietro con una solenne professione di fede, il «Credo del popolo di Dio». In esso il simbolo niceno-costantinopolitano era spiegato e ampliato con chiarezza e competenza (link): segno che proprio da lì, dai fondamenti della fede, bisognava ripartire.
Passa quasi mezzo secolo, e di nuovo l’argomento torna alla ribalta: cosa è accaduto nel frattempo? La fine della guerra in Vietnam e la caduta del muro di Berlino, i conflitti in Medio Oriente e l’Unione Europea, Osama Bin-Laden e Madre Teresa di Calcutta: e infinite altre novità e contraddizioni storiche, sociali, economiche, politiche e religiose. Ma in tutto questo, in tema di fede, il panorama non sembra essere cambiato poi molto. Dopotutto siamo figli del Sessantotto, siamo circondati da chi quei rivolgimenti li ha vissuti in prima persona, e ne abbiamo ereditato gli atteggiamenti e la confusione di fondo. C’è l’ateo che apertamente nega l’esistenza di Dio e la combatte come fosse dannosa per l’uomo (ricorderete anche voi i famosi bus sui quali campeggiava l’illuminata rivelazione: «La cattiva notizia è che Dio non esiste. La buona è che non ne hai bisogno»). C’è il sedicente laico, che crede in Dio (almeno così dice), ma lo lascia ai margini della sua vita, specialmente quando lo infastidisce sussurrandogli di rispettare certi limiti. C’è quello che «crede in Dio ma non nella Chiesa» (ché poi non sta scritto proprio da nessuna parte che i cristiani credono nella Chiesa!). E quanta difficoltà a credere a ciò che non si può facilmente toccare con mano! Armando Matteo ha parlato nel nostro caso di «prima generazione incredula». Ma c’è dell’altro! Quei pochi che ancora hanno il coraggio e a volte la pretesa di definirsi cristiani, quante volte si costruiscono una «religione-fai-da-te», selezionando non ciò che corrisponde alla volontà di Dio, ma ciò che più facilmente e comodamente aderisce al loro modo di pensare e vedere le cose. Per non parlare dell’ignoranza diffusa in tema di verità di fede, che rischia di non essere mai colmata perché, per mancanza di tempo (o piuttosto di voglia!), non si frequentano le catechesi, non si approfondisce la Scrittura, non si leggono i Padri né i documenti del Magistero della Chiesa, per cui per tutta la vita si continua a credere (con una superficialità che ormai non hanno più neppure i bambini) che l’umanità fu condannata «a causa di una mela»! E che dire della «temperatura» della nostra fede? I nostri cuori, che dovrebbero «ardere» pieni di Spirito Santo davanti al Signore, presente in mezzo a noi come tra i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), sono invece tiepidi, disinteressati, perfino indifferenti. A loro l’Angelo di Laodicea potrebbe a ragione dire: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Apc 3,15-16).
Questo quadro semplifica una situazione ben più complessa, della quale tutti noi facciamo quotidianamente esperienza, perché simili contrasti non solo li viviamo nelle nostre relazioni interpersonali, ma si dibattono nei nostri stessi cuori. Davvero c’era bisogno di un Anno della Fede! E c’è bisogno di approfittarne per trarne buoni frutti, per risvegliare una virtù vitale che rischia di assopirsi o spegnersi, come una candela prossima a consumare la sua ultima cera. Potremmo essere la «prima generazione incredula» o l’ultima generazione credente: in entrambi i casi non ci sarebbe futuro per la nostra fede. In quest’Anno che la Chiesa ci ha donato, risuona prepotente la profetica domanda che già il Signore si poneva: «Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Sia nostra premura fare in modo che Egli la trovi, e che la trovi salda e ardente.