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Il respingimento è una vergogna

L’interrogativo di Vegliò: “Che cosa facciamo per impedire la tragedia?”

«Che cosa facciamo per queste persone prima che muoiano o per evitare che muoiano?». È questo l’interrogativo che pone il cardinal Antonio Maria Vegliò, intervistato dal Sir mentre proseguono, senza sosta, le ricerche dei dispersi del naufragio a Lampione, vicino Lampedusa.

«Non sono chiare le dinamiche – continua il cardinale, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti – di questa ultima tragedia nel mare. Di solito le barche affondano perché vengono sovraccaricate. Sono anche da chiarire le responsabilità: però è triste sapere che avvengono questi fatti nel terzo millennio, che ci sia gente che muore per trovare un lavoro, per mantenere una famiglia, o che per garantire per sé e i suoi figli una vita sicura, è costretta a lasciare tutto».

È troppo facile risolvere il problema puntando il dito e invitando i profughi a rimanere nella “loro” terra, quella che loro non hanno scelto; è troppo irresponsabile ignorare i fatti e non giocare sulla condivisione quando, nonostante una crisi che ci attanaglia, abbiamo la fortuna di vivere in una benestante Europa, è troppo superficiale invocare il respingimento. «Il respingimento è una vergogna – afferma Vegliò – e l’uso delle armi ancora peggio: è come quando uno sta morendo di fame e chiede un pezzo di pane a chi è al banchetto. E si sente rispondere di andare via perché disturba».

Non fa retorica il cardinale. «Ritengo che sia normale – spiega il “pastore” dei migranti con lucidità matematica – che ci sia un controllo, perché l’apertura anche umana e cristiana non vuole dire essere degli ingenui. Il flusso dei migranti è un problema che deve essere affrontato con giudizio, non respingendo tutti in mare né dicendo di venire tutti».

Il richiamo, allora, è alla responsabilità, all’evangelica condivisione: «La Santa Sede ritiene che questo fratello che viene, è un fratello nostro. E quindi ha gli stessi nostri diritti e doveri. È quindi una posizione di apertura perché sono nostri fratelli e figli di Dio, ed è un richiamo alla responsabilità a chi arriva qui, al quale si chiede di essere pronto a osservare le leggi».

Le soluzioni? Governi, istituzioni? No, si parte da noi: «In fondo siamo tutti profondamente egoisti. Viviamo nelle nostre torri d’avorio e tutto ciò che è diverso, ci disturba. Per questo è necessario creare una mentalità più aperta verso questi nostri fratelli, perché tali sono, e sono stati meno fortunati di noi. Ho l’impressione che non risolveremo mai questo problema, anzi pare che aumenti. Comunque, ci sarà sempre. La migrazione è nella natura umana. Ci saranno sempre le persone che vorranno vivere meglio, e cercheranno quindi un posto dove poter realizzare questa aspirazione. Non ci sono bacchette magiche per risolvere la questione. Di fronte però all’ineluttabilità del fenomeno, occorre creare una mentalità nuova più accogliente, direi più umana».

 

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Direttore responsabile del notiziario online "Laporzione.it" e responsabile dell'Ufficio per le Comunicazioni Sociali dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne. Laureato in Scienze della Comunicazione sociale e specializzato in Giornalismo ed Editoria continua la ricerca nell'ambito delle comunicazioni sociali. E' Regista e autore di
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