Il Natale: radici pagane del cristianesimo?
Vieppiù sovente capita che ci si senta ricordare saccentemente, quasi “rinfacciare”, che il Natale non sarebbe altro che una festa pagana infarinata di cristianesimo. Malgrado il pomposo e retorico richiamo ad autorità quali Focus o altre simili testatine di bassa divulgazione “scientifica” (la scienza è un’altra cosa), il tono è normalmente tale da lasciar intravedere un livore polemico indirizzato contro quelli che ogni anno si ostinano a festeggiare un Natale mai totalmente dissolto nell’acidità del secolarismo.
La tesi è presto riassumibile: ci sarebbe stata una festa pagana chiamata “dies solis invicti festus” (“festa del sole invitto”), sulla quale posteriormente il cristianesimo avrebbe impiantato una smaltatura dottrinale propria, atta all’espropriazione della festa pagana e alla sua risemantizzazione cristiana. Inutile, quasi sempre, cercare nei summenzionati testi divulgativi elementi di ulteriore precisazione delle entità storiche tirate in ballo: raramente si citano delle date, e quando lo si fa non sono mai tutte. Non si deve pensare che sia necessariamente tutta opera di malizia: le vulgate procedono anzitutto per inerzia, sicché può capitare d’incocciare in studî nient’affatto malevoli ma disgraziatamente disinformati.
Procederemo quindi all’esposizione dei dati storici realmente in nostro possesso, ma non prima di un paio di considerazioni storico-metodologiche, forse utili a sgombrare il campo da equivoci su presunte partigianerie. Difatti, quando si asserisce rabbiosamente che il Natale cristiano non sarebbe che una smaltatura di una festa pagana, non si capisce la ragione di tanto astio: il cristianesimo avrebbe cristianizzato una festa pagana? E allora?
Al consumarsi del primo grosso impatto tra la nascente cristianità e la già incrinata paganità greco-romana, ossia nel II secolo, si dovette affrontare il problema della concordanza di certe dottrine giudeocristiane con alcune proposizioni della sapienza pagana. A titolo di esempio celeberrimo, e dato il tema “natalizio”, ricordiamo il cosiddetto “oracolo messianico” di Virgilio: «Ultima Cumæi venit iam carminis ætas / magnus ab integro sæclorum nascitur ordo. / Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna, / iam nova progenies cælo demittitur alto»* (Bucoliche, IV ecloga, 5-7). Come potevano un pagano convertito al cristianesimo o un missionario iniziato alle lettere classiche non restare folgorati dalla enigmatica e straordinaria assonanza di questi versi con molti oracoli messianici contenuti nelle Scritture (in primis, naturalmente, quello di Is 7)? Il problema dello stabilimento della priorità temporale, dunque, nacque nel contesto di quel primo incontro-scontro: la linea degli apologisti di quel periodo fu molteplice, perché da un lato si tese a rigettare l’alterità pagana, dall’altra a ricondurla a un’universalità nascosta, che si sarebbe manifestata qua e là secondo economie diverse. Si può pensare a uno schema a due o a tre sbocchi fondamentali, ma in sostanza abbiamo la posizione (di rigetto) che vedeva nelle analogie classiche col patrimonio scritturistico un “furtum græcorum”; la posizione (di accoglienza inclusiva) che vedeva in esse la dispensazione dei “semi del Verbo”; la posizione (di ambiguità intermedia) che vi ravvisava una dolosa falsificazione demoniaca atta a destituire di credibilità le Scritture della Rivelazione.
La seconda prospettiva è quella che avrebbe goduto di maggior fortuna, essendosi rivelata capace di reggere al meglio il nexus mysteriorum e al contempo il confronto con la cultura pagana in ordine alla missione (la quale ha sempre caratterizzato il cristianesimo, a differenza dell’ebraismo). Essa tuttavia non poteva svilupparsi prima della germinazione di quell’originalissima rivoluzione teologica che fu l’avvento della Teologia del Logos: nel II secolo si cominciò infatti a sviluppare un pensiero teologico volto ad articolare l’assunto monoteistico in una diade, dapprima, e poi in una triade che presto sarebbe stata chiamata “Trinità”. Il protagonista di questa rivoluzione è il concetto di “Logos”, persona divina, fabbro e architetto del Dio assolutamente invisibile e, soprattutto, recipiente di tutte le idee divine: va da sé che la dottrina di un’attività del Logos esterna alla principale rivelazione salvifica (quella giudeocristiana) e ad essa propedeutica non si sarebbe potuta sviluppare che sul basamento della Teologia del Logos. Perché questa precisazione? Evidentemente l’apologetica ha cominciato sulla difensiva, su un modello dialettico e “diffidente”, per poi aprirsi “subito dopo” (affermazioni necessariamente vaghe, qui) a un modello abbastanza forte da sostenere la distinzione senza operare la frattura. Questo modello, sostanzialmente, è quello che da allora e per sempre ha guadagnato al cristianesimo il diritto e il potere di inculturarsi ovunque giunga: l’avvento del Messia inteso come incarnazione del Lògos eterno di Dio è “il passe-partout della cristianità nella storia”.
Un corollario a quest’osservazione sull’evoluzione storica dell’apologetica cristiana potrebbe essere il seguente: l’apologetica non è uno strumento del passato, ma una missione permanente e costitutiva del cristianesimo, che nel presentarsi al mondo deve semplicemente saper dire che cos’è e che cosa pretende di significare per esso. I principî, le forme, il metodo cambia, ma l’obiettivo resta. Tutto ciò evidenzia che il livore di quanti accusano il cristianesimo di aver semplicemente ritoccato una festa pagana ricade ancora nel primo schema apologetico, come ignorando che il cristianesimo, per così dire, “ha licenza” d’individuare analogie culturali con le sue peculiarità e di completarle col resto della sua dottrina. Questo vuol dire che effettivamente il Natale sia nato come festa pagana? No, non vuol dire questo, ma solo che seppure così stessero le cose, in nulla ciò comporterebbe un problema.
Veniamo dunque ai documenti storici, con l’auspicio di aver sgombrato il campo da sospetti d’interessi campanilistici che potrebbero inficiare la ricerca storica. Uno dei più caotici argomenti probatorî addotti (caotico ma ben smerciabile su Focus & Co.) consisterebbe nella comparsa, nell’iconologia di Cristo, del nimbo solare attorno al capo (ciò che poi diventerà l’aureola), il quale non si avrebbe prima della svolta costantiniana. È vero: non ci risultano ritratti di Cristo col nimbo solare prima di Costantino, che già aveva adottato questo segno sacrale (di ascendenza mitraica) nel conio delle proprie monete. Non ci risultavano però, se è per questo, neppure ritratti di Cristo senza barba, prima di Costantino, e (fatta salva la speculazione di qualche ardito sindonologo) il ritratto barbuto di Cristo deve il proprio canone più all’immagine stereotipata del saphòs che a un’indimostrabile circolazione di calchi dal velo sepolcrale. Sull’apporto del culto mitraico, poi, s’è fantasticato a non finire, come se di quella religione misterica si sapesse chissà quanto: analogie (abluzioni e sigilli crismatici) e differenze (esclusione delle donne) sono state tutte annotate e riportate da scrittori ecclesiastici, che non hanno mai creduto di dovervi ravvisare un’insidia per l’originalità del cristianesimo.
Fatto sta che la prima datazione inequivocabile di una festa pagana per il sol invictus si riscontra nel cosiddetto Chronographus romanus del 354, che riporta, al 25 dicembre: «N(atalis) Invicti, c(ircenses) m(issus) XXX» (si allude ai festeggiamenti pubblici prescritti per il Natale del Sole invitto); nondimeno, anche la prima datazione diretta di una festa cristiana per il Natale del Messia si riscontra nel medesimo cronografo, che accanto alla festività pagana riporta una lista dei natalicia dei martiri romani (ossia delle date delle loro passioni), la quale si apre così: «VIII kal. Ian. natus Christus in Betleem Iudeae» («Il 25 dicembre è nato Cristo, a Betlemme di Giudea»). Il contesto indica quindi che si offre una data per una celebrazione liturgica, ma ritenuta storicamente fondata.
A Martin Wallraff sembra di dover quindi concludere che «l’origine della festa [corsivo redazionale] sarebbe da collocarsi a Roma in età costantiniana» (Christus verus Sol, 180) e che già sotto il regno di Costanzo essa si sarebbe propagata anche a Oriente. Così anche Saxer-Stephan Heid e altri; questa conclusione sembra tuttavia trascurare, in qualche modo, che Agostino rimproverava agli scismatici donatisti (che a Costantino avevano già dato del filo da torcere) il loro rifiuto della festa dell’Epifania, pur riconoscendo che praticavano normalmente quella del Natale. Ora, considerando che lo scisma donatista s’è aperto nei primi anni del IV secolo, e che i donatisti avevano trattenuto ciò che ritenevano costituire il bagaglio sicuro del patrimonio dottrinale della Chiesa, respingendo le “novità”, non si dovrebbe pensare che la festa del Natale fosse già celebrata, almeno in Occidente, almeno da qualche decennio prima della fine del III secolo? Se le cose poi stanno così, che cosa diventa la presunta anteriorità dell’indizione della festa pagana del 25 dicembre, che si fa normalmente cadere sotto l’impero di Aureliano (270-275)?
A quanto ne sappiamo, dunque, le due feste, in quanto feste, potrebbero essere sorte pressoché contemporaneamente, parallelamente e senza alcuna intenzione di mutua incidenza. Ciò che resta misteriosa, invece, è la “preistoria cronografica” di queste due celebrazioni, perché ci parrebbe di riscontrare segni d’autonomia genetica su entrambi i versanti. È stato rinvenuto un antico calendario egizio (di datazione controversa, e comunque da situarsi nel III secolo) che riporta in greco, al solito 25 dicembre: «Elìou genéthlion: aùxei phòs» («nascita del Sole: la luce cresce»).
D’altro canto Agostino scriverà, nel suo trattato Sulla Trinità: «Non senza ragione nella formazione del corpo del Signore, simboleggiato dal tempio distrutto dai Giudei e che Cristo si riprometteva di restaurare in tre giorni, il numero sei rappresenta un anno. Gli risposero infatti i Giudei: Sono stati necessari quarantasei anni per edificare il tempio. Ora quarantasei volte sei fa duecentosettantasei, che è il numero di giorni contenuto in nove mesi e sei giorni, tempo che si computa come se fossero dieci mesi per le donne incinte. Non che tutte le donne arrivino nella loro gravidanza a nove mesi e sei giorni, ma perché il corpo del Signore ha impiegato tale numero di giorni per giungere a termine perfettamente costituito, come risulta da una antica tradizione alla quale si attiene l’autorità della Chiesa. Si crede che sia stato concepito il venticinque marzo, che è anche il giorno della sua passione. Così il sepolcro nuovo in cui fu sepolto, nel quale nessun morto fu posto né prima né dopo, rassomiglia al seno della Vergine in cui fu concepito e nel quale nessun mortale fu generato. D’altra parte secondo la tradizione nacque il 25 dicembre. Ora dal giorno della concezione a quello della nascita si hanno duecentosettantasei giorni, numero uguale a quarantasei volte sei. In quarantasei anni fu costruito il tempio, perché nel numero di giorni corrispondente a quarantasei per sei si formò completamente il corpo del Signore, distrutto dalla morte inflittagli e da lui risuscitato dopo tre giorni. Infatti diceva questo del suo corpo, come lo prova la testimonianza così chiara e forte del Vangelo: Come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (De Trinitate, IV,5.9). Del complesso argomento aritmologico del Vescovo di Ippona, che scrive nei primi decennî del V secolo, c’interessa qui soprattutto come per lui esso rispondesse e aderisse a «una antica tradizione». Quale tradizione?
Proviamo a esemplificarla in tre semplici testimonianze. Roma anzitutto, dove verosimilmente nei primi decennî del III secolo Ippolito componeva il suo Commento a Daniele: «La prima parusia di nostro Signore, la parusia nella carne che lo fa nascere a Betlemme, ha avuto luogo l’ottavo giorno delle calende di gennaio [ossia il 25 dicembre], un mercoledì, nel quarantaduesimo anno del regno di Augusto […]» (IV,22-24).
Spostandoci lievemente a est, a Petovio (l’attuale Ptuj, in Slovenia), abbiamo la testimonianza di Vittorino, verso la fine del III secolo: «Abbiamo trovato, tra le carte di Alessandro, che fu Vescovo a Gerusalemme, ciò che egli trascrisse di suo pugno da documenti apostolici: l’ottavo giorno delle calende di gennaio [ossia il 25 dicembre] è nato Nostro Signore Gesù Cristo, sotto il consolato di Sulpicio e Camerino […]».
Dirigendoci a Oriente fino ad Alessandria d’Egitto troviamo Clemente, che molti decennî prima (presumibilmente a cavallo tra il II e il III secolo) raccoglieva eruditamente, ma senza prestarvi il proprio consenso, interminabili cronologie a lui precedenti: «C’è poi chi, con più minuziosa pedanteria, cerca di assegnare alla nascita del Salvatore non solo l’anno, ma il giorno: e sarebbe il 25 del mese di Pachon [ossia il 20 maggio] del ventottesimo anno di Augusto» (Stromati, I,21,145.6). Le molte cronologie di Clemente non concordano, perché appena sopra si legge che «dalla nascita del Signore alla morte di Commodo si contano in tutto 194 anni, 1 mese, 13 giorni», e se la morte di Commodo è da datarsi intorno al 31 dicembre 192, la nascita di Gesù risalirebbe attorno al 18 novembre del 3 a.C.
Il grande Alessandrino, tuttavia, riporta come mero bagaglio d’erudizione tutte queste date, distanziandosene apertis verbis: egli festeggiava il Natale di Cristo, per conto suo, il 15 del mese di Tubi, ossia il 6 gennaio (quella stessa data in cui «quelli della setta di Basilide [degli gnostici, n.d.r.] festeggiano anche il giorno del suo battesimo»). Il mistero s’infittisce, dunque, se si considera appena come il 6 gennaio si festeggi tuttora anche il Battesimo di Cristo, oltre all’adorazione dei Magi e al segno di Cana!
Come si passa dunque dalla netta concordanza di Ippolito e Vittorino sul 25 dicembre alla fluttuante oscillazione clementina? Mistero insolubile? Forse no, se si tiene conto di come Alessandria fosse il posto giusto per il confronto tra culture diversissime (ossia per la creazione di quelle sane confusioni da cui spesso emergono cose grandi), oltre che la culla privilegiata del giudaismo ellenistico. Proprio dal confronto dei calendarî ebraici con quello giuliano, Gianantonio Borgonovo ha forse introdotto elementi decisivi, che saranno pubblicati a breve: «La prima osservazione, sottolinea Borgonovo, è la seguente: “Il 25 dicembre e il 6 gennaio fanno riferimento alla stessa data, ovvero il 25 di Tevet del calendario ebraico”. “Il 25 dicembre – prosegue – sarebbe la trascrizione popolare del giorno ebraico, mentre il 6 gennaio ne sarebbe l’equivalente preciso”». Non solo, ma tenendo per ferma l’ipotesi della coincidenza storica delle due date come risultanza di una sovrapposizione di calendarî, sarebbe possibile anche individuare l’anno esatto della nascita storica di Cristo: tra il 10 a.C. e il 10 d.C. «un solo anno – infatti – presenta l’equivalenza del 25 di Tevet con il 6 gennaio. Precisamente è il 3.756 dalla creazione del mondo secondo il computo ebraico. È il nostro 5 a.C.».
La ricerca di Borgonovo si spinge ancora oltre, ma il conto delle ore non appartiene alla nostra ricognizione: le sue considerazioni, unite alle testimonianze di Clemente, rendono tuttavia ben più che ipotizzabile che la festa del Natale sia nata non in Occidente nel IV secolo, ma in Egitto nel II, e che quella che dapprima era la semplice ricorrenza di un anniversario (il semplice “compleanno di Cristo”, per intenderci) divenne ben presto, in Oriente e in Occidente, una celebrazione misterica atta a raggrumare in sé l’intera storia della salvezza.
Lo sviluppo tardivo della festa del 6 gennaio in Occidente aprirebbe un ulteriore capitolo, sul quale non è il caso di soffermarsi qui: come giustificare, invece, la coincidenza col culto solare? Data l’autonomia che le complesse cronologie dei primi secoli rivendicano per la data del Natale di Cristo, e dato quindi che non c’è motivo di ipotizzare una sovrapposizione politica risalente al IV secolo, non c’è neppure motivo d’immaginare una dipendenza “all’inverso”. La semplice collocazione astronomica del solstizio d’inverno (pacificamente nota fin dall’antichità) basta a fare del 25 dicembre una data utile a celebrare le primizie del “sole nuovo” con questo o quel culto misterico (per quello che sappiamo, in fin dei conti, di Mitra!): in fondo, la considerazione di come questa celebrazione direbbe di un mistero di “morte e risurrezione” sarebbe sufficiente a candidare il 25 dicembre come data fissa per la celebrazione della Pasqua cristiana, più che del Natale di Cristo (cosa mai ipotizzata da nessuno).
Autonomia da una parte e dall’altra, dunque: è l’ipotesi più probabile, nonché la più ragionevole anche in ordine al semplice buonsenso, visto che il sole non è certo stato adottato a divinità o a simbolo divino solo a partire da Zoroastro. Ben prima del culto egizio di Ra, graffiti rupestri hanno attestato l’adorazione del disco solare da parte di uomini “preistorici” (aggettivo discutibile), e il cristianesimo non risulta debitore particolare del mitraismo più di quanto non ne risulti debitore il mito di Prometeo. Neanche gli ebrei, che pure temevano l’idolatria come nient’altro, seppero trattenersi dallo scrivere che «sole e scudo è il Signore Dio» (Sal 83,12), e se Malachia potè scrivere, nei suoi oracoli messianici, che per chi teme Dio il «giorno grande e terribile del Signore» (3,23) avrebbe comportato il sorgere del «sole di giustizia» (3,20), Luca potè ricordarsene quando seppe che Zaccaria aveva detto del Salvatore, cui suo figlio doveva andare avanti: «Verrà a visitarci un sole che sorge dall’alto/ per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre / e nell’ombra della morte / e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79).
*: «È giunta l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, / già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo»