“Il bivio e la croce”
Il titolo lascia spiazzati, prima della visione; dopo, invece, si resta amareggiati. “Der Kreuzweg” indica, in tedesco, “il bivio”, ma pure “la via crucis”: solo la visione del film dà l’idea di quanto e come i due concetti siano fusi (e con-fusi) nel titolo – Am Kreuzweg – che prende quindi la consistenza di un durissimo j’accuse! Peccato, perché il film aveva forse qualche numero da giocarsi sul tavolo di un dibattito onesto; difficile e non sempre sereno, ma poteva essere un onesto confronto, quello cui avrebbero forse saputo condurre le provocazioni del film.
La pellicola è stata prodotta per la televisione tedesca, ed è andata in onda a marzo 2011 registrando un ascolto importante (circa sei milioni di telespettatori): in Italia essa è stata proiettata in occasione dell’apertura della XXV edizione del Festival Internazionale di Cinema e Televisione “Eurovisioni”, il 16 ottobre 2011 al Goethe Institut di Roma. Alla proiezione erano presenti il Regista Uwe Janson e la Sceneggiatrice Rodica Döhnert, oltre a Xavier Gouyou Beauchamps, presidente del Festival.
Il film comincia inanellando le migliori premesse di un lavoro paziente e costruito con cura: mentre in una parrocchia di paese nello Schwarzwald si approntano gli ultimi preparativi per la solenne veglia pasquale il parroco viene distolto dal suo doveroso momento di raccoglimento perché vada a occuparsi della “zia Luise” (una di quelle donne anziane che tutti chiamano “zia” pur senza che si capisca mai di chi sarebbero zie), che è salita sul timpano della chiesa e sta lì, come già altre volte, facendo venire il cardiopalmo a tutti. È quasi incredibile come nelle recensioni consultabili (anche in lingua tedesca) il personaggio di zia Luise sia a malapena menzionato: in realtà, a dispetto del limitatissimo numero di passaggî che la vedono comparire (e anzi precisamente in ragione di ciò) in lei agisce il vero deus ex machina della storia. Quando il parroco, padre Conrad, sale da lei e la invita a scendere giù, le parole di lei sono quelle di una pizia che era salita fin lì quasi solo per attrarre il prete a un colloquio privato: «Ti auguro d’imparare a dire la verità».
Tutti gli ingredienti della storia si delineano nell’arco delle ventiquattr’ore: il giovane che aiuta il parroco in qualità di ministrante (in Germania è la principale forma di aggregazione giovanile parrocchiale, non meno organizzata della nostra Azione Cattolica) riceve le languide occhiate della bella Luna, che cerca di farsi vedere da lui intenta a carezzare il cero pasquale durante la processione; dopo la messa del giorno di Pasqua, un parrocchiano si ferma a osservare che non sarebbe più il caso di menzionare Satana nel ricordo delle promesse battesimali – il prete tenta di obiettare che “la gente ha bisogno di questo stimolo”, per sentirsi ribattere che è lui (l’unico) ad averne bisogno – e col rituale dileguarsi della folla si assiste al solitario, circospetto eppure evidentemente abituale spostamento del prete che, con grande prudenza, raggiunge un casolare fuori mano. Lì Karin – donna che prima era risultata essere la madre del ministrante, oltre che di una bambina – lo aveva preceduto in macchina, portando qualche provvista per un pranzo di Pasqua in intimità. All’improvviso si fa tutto chiaro, ma ecco il colpo di genio: mentre il subconscio aspetta i fotogrammi proibiti e il super-io affila la lancia per trafiggere l’incauta regia, il film ti sorprende – il silenzio e una carezza (ma neanche un bacio!). Riavuti dalla sorpresa, si può intravedere la piega che prenderà la narrazione: la vita nascosta del prete non è dettata da voraci raptus di passione, bensì da un tenero e tenace sentimento che i due nutrono con prudenza reciproca, cercando di salvaguardare capra e cavoli.
L’evidente assenza della figura paterna nella casa di Karin è così colmata da frequentissime visite del prete, camuffate da particolare zelo pastorale per una famiglia così bella nonostante ignote circostanze l’abbiano costretta a venire su senza un uomo: la situazione descrive perfettamente quella che in ambito protestante viene chiamata “la doppia morale” cattolica, ossia banale ipocrisia; ma la bontà e la purezza d’intenzioni dei due amanti lavorano silenziosamente nell’osservatore, imponendogli di conservare in caldo lo sdegno per tanta ambiguità fino al momento in cui si paleserà il vero motivo del disordine. L’occasione la fornisce, suo malgrado, proprio il giovane Georg (il figlio), quando comunica a pranzo – presenti la madre e il padre-prete – la sua decisione di entrare in seminario per diventare prete. Questo è troppo! Karin diventa istantaneamente il fulcro del dramma: ecco la donna che s’è dovuta accontentare di avere mezza vita, laddove il suo uomo ne aveva una e mezza, e non per la perfidia di lui, che anzi la ama teneramente, ma per la cieca crudeltà della “politica della Chiesa” (parola magica dell’invettiva anticattolica)! Non solo il padre dei suoi figlî non può essere suo marito fino in fondo, ma anche l’unico altro uomo della sua vita e della sua casa rischia di venire risucchiato dalla voragine spietata di questo mostro medievale che è la Chiesa!
L’equilibrio dell’inizio – che pareva solido come le montagne nonostante fosse precario come le ragnatele – viene rapidamente smantellato dal precipitare degli eventi in due direzioni: da un lato il crollo nervoso di Karin (che abbiamo già detto essere relativamente comprensibile); dall’altro la decisione episcopale di trasferire padre Conrad dal paesello nello Schwarzwald a Friburgo. Qui s’interrompe bruscamente la rispettosa distanza che il Regista e la Sceneggiatrice erano riusciti a tenere nei confronti della Chiesa: il Vescovo viene rappresentato, sì, con caratteri tanto generici da poter spacciarsi per un’esemplificazione collettiva di quello che normalmente s’intende con “la Chiesa”; d’altro canto egli parla con tanta sconsiderata imprudenza a proposito del protettorato che lo avrebbe da sempre legato a padre Conrad (in vista del suo futuro episcopato!) da assumere sempre più i tratti della caricatura. Data però la genericità del personaggio, si apre nel copione del film – fino a questo punto avvincente, per quanto in fondo scontato – lo spiffero da cui s’immettono nella trama e nei dialoghi i più triti luoghi comuni: «La tua Chiesa fascista» è ancora il meglio che si deve ascoltare, se poi si è pure costretti a sorbirsi il solito minestrone sulla non fondatezza scritturistica del celibato di consacrazione (evidentemente hanno Bibbie da cui sono stati espulsi anche Matteo e Paolo, non solo i deuterocanonici…), sulle donne di Gesù, sulla necessità di volgersi alle comunità ecclesiali riformate…
Quello che è interessante, invece, è che padre Conrad ha ancora delle resistenze: mentre infatti si convince a confessare alla comunità la propria doppiezza, deve sentirsi rimbeccare da questa che i suoi peccati sono da confessare a Dio e non al popolo, che ha bisogno di un pastore. La rivelazione della verità viene esaltata come strumento apocalittico, intrinsecamente e necessariamente salvifico, a prescindere dalle conseguenze che essa potrebbe comportare sulle coscienze deboli: nel momento in cui Conrad si raccoglie a pregare (uno dei rari momenti, in fondo) e chiede a Dio d’illuminarlo nel suo smarrimento, ecco giungere zia Luise (ben altro che “deus” ex machina!) a rivelargli che Dio non gli imputa alcuna infedeltà. «Dio non ha nulla contro il piacere e l’amore di voi preti; Egli non sopporta la vostra doppiezza»: un simile concentrato di verità e menzogna in un’unica frase ha del prodigioso – a nulla viene reputata la promessa che un uomo ha liberamente fatto al suo Dio.
Perché? Ecco il vero dogma (l’unico), che Conrad tira fuori quando Georg – ormai conscio e furibondo per la finzione di cui è stato inconsapevole vittima – gli ricorda che il celibato è questione di disciplina: «Ma come si può resistere all’amore? L’amore è irresistibile per definizione». Questo è il principale tra tutti i luoghi comuni del film, ed è rivelativo della forma mentis del Regista e della Sceneggiatrice: che l’amore sia l’irresistibile per definizione può pensarlo soltanto chi ha vissuto esclusivamente esperienze sentimentali intrise di adolescenze mai smaltite, e così proietta le categorie in cui si autocomprende l’amore degli amanti ostacolati (ciò che Conrad e Karin appunto sono) sull’immaginazione dell’amore di una coppia stabile ventennale. Visti con occhio cinico e incurante dell’interesse dei figlî, Conrad e Karin hanno ricavato un relativo vantaggio dal dover vivere la loro passione lontano dalla luce del sole: sono permansi sempre nella temperie dell’innamoramento, vagheggiando soltanto, come miraggio irraggiungibile, quella dell’amore.
Mentre i due fanno questo sofferto passaggio (ormai l’oracolare zia Luise può tranquillamente avere il suo infarto e comunicare in punto di morte a Karin che veglierà su “suo marito” dal cielo), Conrad scrive al Papa la supplica di dispensa dagli obblighi del celibato e la bambina recupera prodigiosamente l’uso della parola (che lo shock le aveva portato via) resta aperto l’altro fronte della guerra, che è quello della determinazione di Georg. Qui l’ingenuo utopismo di Regista e Sceneggiatrice tocca il vero apice: interrogati infatti dagli spettatori della proiezione, entrambi hanno innocentemente dichiarato di non aver affatto inteso fare un film sul celibato dei preti cattolici – «Del resto Uwe non è religioso – ha detto la Sceneggiatrice – e io credo soprattutto nella forza creatrice che pulsa dentro di noi, perché il divino siamo noi». La vicenda del prete giunto finalmente al bivio della propria via crucis non sarebbe quindi altro che una parabola per parlare delle solite dialettiche individuo-società, cultura-natura e via dicendo.
Anche se volessimo dare credito alla poco verosimile dissimulazione d’intenti – altrimenti perché lasciar serenamente dichiarare che “un simile film in Italia non lo si vedrà mai”? – la trama ha le sue proprie inconsistenze con cui fare i conti. Il film terminerà con la ribellione totale di Georg, che diserterà la via per il seminario di Friburgo, rimastagli aperta, e quella di casa, verso la quale i genitori lo pregano di tornare (si limiterà a toccare la spalla del padre come segno di quel perdono che solo i cavalieri senza macchia e senza paura sanno benevolmente accordare – in questo davvero una cattiva parabola). Il Regista e la Sceneggiatrice hanno dato grande enfasi a quella scena, richiamandovisi più volte anche nel dibattito susseguito alla proiezione: «È il simbolo delle nuove generazioni, il giovane: è il simbolo degli indignados che c’insegnano che tra l’autorità famigliare e quella della Chiesa o comunque dell’istituzione è possibile scegliere altro, scegliere liberamente».
Al che, non è sembrato possibile a chi scrive evitare di richiamare all’attenzione alcuni dettaglî della pellicola, che non sembravano presi in seria considerazione nel dibattito: Georg recita col padre la parte dell’idealista duro e puro, che spiega al prete che grande dono sia il celibato e quanto bisogni averlo a cuore; d’altro canto la giovane e audace Luna riesce a prendere il discorso per versi “più informali”, e se al giovane Georg non è dato di ritrovarsi irretito nelle lenzuola della giovane è solo perché la Sceneggiatrice non poteva permettersi un così flagrante corto circuito. La relazione tra Georg e Luna resta così per tutto il film pericolosamente in bilico tra ambiguo e rischiosissimo “apostolato” e flirting represso e malcelato: lei lo fa bere (ai due poi si aggiungerà un terzo, un seminarista, non migliore di Georg), lui la porta in chiesa, di notte, dove – entrambi ubriachi – attenta “per lei” alla celebrazione eucaristica. Quando tra i fumi dell’alcol lei pone domande serie sul codice d’abbigliamento degli ecclesiastici e sulla disciplina sessuale cui si sottopongono, le risposte non riescono a tenere il livello di lucidità delle domande.
Considerando tutto questo, insomma, verrebbe da chiedersi in che modo sarebbe ragionevole aspettarsi da un giovane già drammaticamente segnato da un’esperienza famigliare così aberrante e già visibilmente esposto a una doppiezza che rasenta la schizofrenia una parabola esistenziale che non sia condannata a ripercorrere fatalmente quella del padre: come si fa, in breve, a credere che “la terza via”, la via del futuro, imbroccata dal figlio indignado di questa caotica parabola, sia una via che merita speranza.
La risposta che il Regista diede fu pressappoco: «Ma io non intendo dichiarare niente, in quella terza via ognuno può vedere ciò che vuole». Quella della Sceneggiatrice: «E poi, si ricordi, non bisogna “credere”, bensì “sentire”».
Ora, queste frasette alla Natalia Aspesi possono andare bene per ammansire degli adolescenti, ma non delle persone di pensiero rigoroso radunatesi per la presentazione di un evento culturale che pretendeva di parlare in modo serio e critico di una realtà tanto sfaccettata e complessa quanto il celibato sacerdotale. Consola vedere che, nonostante il chiassoso cicaleccio dell’agorà mediatica, nella Chiesa Cattolica non manca la lucidità di ripresentare in più forme la rielaborazione e la riformulazione delle ragioni del celibato (cui i suoi uomini si sottomettono liberamente), e che del resto anche chi cede e viene meno alle proprie promesse non smette di trovare nel suo grembo – che è grembo di madre, e non di amante mercenaria – conforto e aiuto.
Eh, la Germania, appunto, dei Kung, Drewermann, ma anche l’Olanda dei preti sessantottini. In Italia, dai tempi di Gioberti, si sente una superiorità anche dogmatica, canonica che, a mio avviso, dovrebbe solo spaventare: il pluralismo è salutare e a volte salvifico. Ratzinger, l’attuale pontefice, era un prof, e di solito i prof, dai miei ricordi, dall’elementari all’università, hanno una certa apertura mentale: i levrebiani e il riaccoglimento che cos’è se non altro ascoltare tutti, Mons. Paglia postulatore “benedetto” e il Vescovo martire Romero? idem! Polonia e Italia, troppo simili, Madonne di Solidarnosc e Virgo fidelis.
dovrei vederlo… ma andare contro il celibato ecclesiastico significa non aver capito cos’è un eunuco per il regno dei cieli… cmq Gesù l’aveva già detto che non tutti l’avrebbero capito