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Niente di nuovo sul fronte occidentalista

Roma, i Black Block, gli indignados: spunti per una valutazione del fenomeno

Non sono solo le efferate violenze occorse durante la Giornata dell’Indignazione romana svoltasi lo scorso 15 ottobre a richiedere una riflessione a proposito dei cosiddetti “indignados”. Le analisi più accurate dei manifesti politici del movimento “indignato” mostrano come la retorica dei “nuovi diritti” non rappresenti un’alternativa ma piuttosto uno sviluppo ulteriore delle premesse della “società permissiva”: una nuova fase pulviscolare e atomizzata del ribellismo antagonista caratterizzata dalla medesima negazione di un ordine eterno di valori in nome di un radicale relativismo, con l’aggiunta di una forte accentuazione della componente immediatamente irreligiosa.

La rituale litania dei distinguo e delle prese di distanza a seguito della violenza del “black block” non deve far perdere di vista come la meccanica dell’indignazione e quella dell’antagonismo non si muovano, almeno idealmente, su binari troppo dissimili.

In questo senso il ricorso esplicito alla violenza ha un carattere sintomatico. Come ha mostrato Sergio Cotta (1920-2007) nel suo Perché la violenza? esiste una fondamentale differenziazione tra forza e violenza. La prima, anche nei momenti di esaltazione, rimanda all’idea di disciplina e controllo, a una razionalità funzionale. Dire forza significa evocare un cosmo, un ordine dell’essere. In essa si ravvisa la presenza anche di un elemento ideale.

La violenza, invece, si differenzia anche fenomenologicamente dalla forza: nelle sue manifestazioni essa appare sotto le forme smisurate, tumultuose ed emozionali del caos. Preminente è l’elemento volontaristico, il violento è divorato dall’urgenza di imprimere il proprio marchio alla realtà, ansioso di vincerla con la forza del numero (da qui l’esaltazione del “collettivo”, analogo sociale dell’esplosivo al plastico).

Questa differenza è impressa anche nell’uso linguistico: si parla di “scoppio di violenza” e non di “scoppio di forza”; diciamo “accecati dalla violenza” e non “accecati dalla forza”.

La profonda, abissale differenza tra forza e violenza sta proprio nel concetto di misura: l’una, la forza, è misurata; l’altra, la violenza, è smisurata. «Chi si priva della forza può solo simularla con la violenza» (P.P. Ottonello, La barbarie civilizzata, p. 57). La violenza senza misura è dunque il simulacro della forza, così come, per analogia, si può dire che il gesto del giovane “barbaro civilizzato” (nel senso della vichiana “barbarie della riflessione”), entrato in una chiesa romana per prelevarne una statua della Vergine da infrangere al suolo, rappresenti il calco rovesciato di una processione religiosa. Le processioni sacre, col sottomettere la realtà alla protezione dell’infinita benevolenza divina, riaffermano al tempo stesso l’infinita subordinazione del mondo all’eterno Dio. Il riconoscimento della propria vulnerabilità esistenziale infligge così un colpo mortale alle pretese di umana autosufficienza.

La rabbiosa frantumazione della statua della Vergine — ingenerata dalla folle illusione di poter arrecare ferite all’Intangibile, come a voler sancire la vulnerabilità dell’eterno, essendo quella dell’uomo insopportabile — scaturisce invece dall’esatto capovolgimento della prospettiva religiosa: il rifiuto radicale della dipendenza dell’umano dal divino. Quella perversa imitatio di una processione sacra incorpora l’affermazione prometeica dell’uomo “misura di tutte le cose”.

L’orizzonte filosofico della violenza rimanda quindi implicitamente a un universo privo di senso, a una materia caotica e informe da plasmare indefinitamente. Questo spiega perché così di consueto si consumi quell’impuro connubio tra violenza e fanatismo. La violenza fanatica è, almeno formalmente, sempre sterminatrice, cioè diretta alla “nientificazione” del nemico in nome di una superiore causa oggettiva. «Il fanatico — nota Robert Spaemann — è colui che tiene per certo che il senso può essere soltanto qualcosa da lui posto e realizzato. Se prende atto del fatto che chi agisce è sottomesso al potere superiore del destino, il fanatico si rifiuta però di accettarlo. Vuole cambiare le condizioni entro cui agisce o perire. […] Non è disposto a tollerare la sua impotenza di fronte all’ingiustizia che gli è toccata e dà fuoco a tutto il mondo perché il diritto sia ricostituito» (R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, p. 119).

La mancanza di misura indica, in ultima istanza, la cancellazione del concetto di limite. La lezione impartitaci da Michele Federico Sciacca (1908-1975) indica proprio nello stralcio della nozione di limite la cifra dell’Occidentalismo. Nella diagnosi di Sciacca l’Occidentalismo rappresenta l’involuzione immanentistica della grande tradizione culturale e filosofica dell’Occidente. Secondo il dogma dell’Occidentalismo, che nega il fondamento metafisico della persona e di ogni ente in quanto creatura di Dio, non può esservi altra verità se non quella prodotta dall’uomo. La ragione occcidentalista — a differenza dell’intelligenza che ha come punto di riferimento l’Essere — rinviene in se stessa il proprio principio e fondamento alla maniera del barone di Münchausen, intento a sollevarsi dalle sabbie mobili facendo leva sulla propria capigliatura. Questa ragione insuperbita e autosufficiente, la «ragione meramente e spietatamente calcolatrice» si sostituisce alla «saggezza», cioè al «”volto pratico” dell’intelligenza, il cui segno è il limite» (M.F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, p. 20).

L’eclissi del limite tende centrare ogni discorso umano su se stesso, consegnandolo a una ragione “razionalistica” e “raziocinante” senza altro riferimento esterno e oggettivo: «L’intelligenza — nota Sciacca — illumina e misura anche la ragione, ne segna il limite; la ragione è “razionale” e “ragionevole” quando non si pone essa stessa principio della verità e di ogni verità […]; quando non nega il logos oggetto interiore dell’intelligenza, fondamento del pensare e del ragionare e perciò principio veritativo di tutte le verità» (pp. 29-30)

L’Occidentalismo, ragione immanentistica, di “pessima qualità”, è sempre anti in quanto privo di quel fondamento che è l’intelligenza. Questo pensiero pragmatico odia la verità fino a sostituire il metodo al principio, pratica la riduzione di tutti i valori al loro valore d’uso, assurge a   unità di misura dell’idea non l’essere ma l’efficacia pratica o operativa. «Questo è il cammino, coincidente con il graduale oscuramento dell’intelligenza, percorso dall’Occidentalismo», sentenzia il filosofo di Giarre. La mentalità occidentalista «”calcola” esclusivamente secondo la “logica del potere”», e le forme di questo potere, continua Sciacca, «tendono a convergere verso una Tecnocrazia anonima a livello mondiale» (pp. 128-129).

Nella condivisione dei postulati dell’Occidentalismo occorre individuare il trait d’union in grado di accomunare “antagonisti”, “indignati” e “tecnocrati” come un Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve statunitense nel corso della crisi dei mutui subprime e allievo della filosofa Ayn Rand (1905-1982), per la quale «l’Atlante che sorregge il mondo occidentale è il capitalista spietato, il quale sa che per sopravvivere non si può dare troppo peso ai minores o alla morale, per non parlare delle religione per la quale nell’ateismo assoluto della scrittrice russo-americana non c’è alcun posto» (M. Introvigne-P. Ferraresi, Il Papa e Joe l’idraulico. La crisi economica e l’enciclica Caritas in Veritate, p. 16).

Non pare dunque troppo forzato indicare nella natura intrasistemica del ribellismo, antagonista o indignato che sia, la sua incapacità di rappresentare un’autentica alternativa politica.

Andreas Hofer
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