Le verità monodose
È singolare come l’universo della fede (includendovi i credenti, le loro credenze e il loro stile di vita) sia sempre pensato, nel sentire comune, come antitetico al mondo del pensiero: ogni matricola di un corso di Filosofia deve, naturalmente, sostare a lungo sui problemi teoretici ed epistemologici dati dal rapporto “fede-ragione”, ma il largo fenomeno sociale di deprezzamento del pensiero delle persone e/o degli ambienti religiosi non riguarda certo una nicchia di studiosi. Questi, semmai, sarebbero l’élite culturalmente significativa e rappresentativa di tale fenomeno.
La cosa veramente degna di nota è il silenzio di censura con cui la dignità del pensiero religioso viene semplicemente taciuta: basti pensare che le numerosissime pubblicazioni teologiche italiane (dal vario spettro qualitativo, come è normale che sia) sono distribuite tra case editrici quasi esclusivamente cattoliche, e quasi esclusivamente dedite al settore saggistico. Fuori da questa nicchia editoriale abbiamo soltanto delle collane che – come Uomini e religioni della Mondadori – dànno al pensiero teologico una duplice “protezione”, ossia quella “antropologica” e quella “pluralistica”, come passaporto per le librerie. La Teresa d’Avila di Vita Sackville West, però, non è mai stata il caso editoriale de L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, e sì che sono opere dallo spessore incomparabile. Così sono sorte delle case editrici (come la “Fede & Cultura”) che si propongono l’obiettivo di colmare questo gap tra pensiero comune e pensiero religioso: la forte identità religiosa, però, è stata per esse un’arma a doppio taglio, visto che ancora una volta il banco di prova – ovvero le librerie – è stato impietoso, nel boicottaggio generalizzato di quasi tutta la produzione teologica (ovvero grossomodo di quella che non rientra nella grande corrente dei “controcorrente”).
Così questo è degno di nota: nonostante la sovreminente dignità e raffinatezza della speculazione teologica cristiana, ci si ostina a relegare comunemente – nelle librerie – l’ignoratissimo cristianesimo tra “le altre religioni”, come una bambina tra le bambole (salvo poi rivendicare la maggiore dignità e purezza delle tradizioni riformate e orientali su quelle cattoliche e occidentali). Nonostante non manchino, anche nel mondo della televisione e degli altri media – ossia la punta d’iceberg del nostro teatrino “culturale” – numerosi e distinti personaggî che si professano religiosi, questo dato non basta a scalfire il luogo comune per cui la fede sarebbe incompatibile con la ragione. Non più tardi di ieri venivo a sapere da un amico che una donna, titolata di licenza media, rampognava la sua “credulità”, in quanto la semplice evoluzione della specie basterebbe a smentire l’ipotesi teologica fondamentale, ossia l’esistenza di un Dio. Nulla venivano valutati i poderosi e varî settori del cursus studiorum del mio amico, il quale avrebbe potuto problematizzare l’epistemologia darwiniana in lungo e in largo, se la sua interlocutrice fosse stata in grado perlomeno di seguirlo nel discorso.
Quando invece, in situazioni analoghe, si vuole insistere e crivellare di obiezioni e critiche il luogo comune di partenza, in breve si arriva all’arrocco nel luogo comune successivo: “la fede è un fatto personale”. Questo vorrebbe dire che le ragioni del credere non possono essere universali, quindi necessariamente non possono essere condivisibili. Se a questo punto si ha ancora voglia d’insistere con il rigore che la ragione umana esige, smascherando le infondatezze del luogo comune, arriva presto l’arrocco in un ulteriore luogo comune: “la fede è un dono – o ce l’hai o non ce l’hai”. Il che vuol dire, semplicemente, che l’interlocutore non ha alcuna voglia di ascoltare, pensare, capire, argomentare: ciò che viene richiesto è di non presumere che il proprio pensiero possa essere rilevante per un altro uomo. «Il solito nichilismo travestito da libertà di pensiero», si dirà: sì, ma la cosa veramente incredibile è che chi non sa osservare e smascherare le maglie di quest’impostura non vuole neppure lasciarvisi condurre mediante la considerazione delle proprie contraddizioni. Posto, infatti, che non c’è fine alla sequenza dei luoghi comuni (è come giocare a scacchi con un avversario nel cui campo, a sfregio di ogni regola e di ogni principio, sorgono nuove torri di continuo), l’interlocutore non riesce neppure ad ammettere che i primi due luoghi comuni sono incompatibili tra loro, mentre il terzo è mutuato dal linguaggio teologico senza la minima avvertenza che questo gli conferirebbe implicitamente la dignità di pensiero. “La fede è un fatto personale”, detto dopo “la fede e la ragione sono incompatibili”, è un asserto dalla portata assai più ristretta della prima, che pur concedendo quanto si è guadagnato nell’argomentazione (ossia che la fede e la ragione non sono incompatibili) nega che il nostro guadagno dialettico abbia una rilevanza tale da obbligare alla condivisione, perché “ciò che è vero per te può non essere vero per me” – autentico principe dei luoghi comuni odierni! Il meglio, però, avviene col terzo luogo comune: è proprio la teologia, infatti, a insegnare che la fede, in quanto virtù teologale, è anzitutto un dono e un’iniziativa di Dio; liofilizzando però la fecondità di questa valutazione teologica nel sopradetto luogo comune, si ottiene solo la pretesa che si rinunci a parlare di fede come se dipendesse in qualche modo dagli uomini il viverla o no. Da un lato, ossia, si riversa sul versante teologico (previamente negato) quel determinismo etico ed epistemologico di cui l’interlocutore – strenuo difensore di ogni “libertà” – si professa acerrimo nemico (primo nugolo di corbellerie condensate in un flagrante cortocircuito del pensiero); dall’altro l’avversario pretende, praticamente, di poter intimare la resa a chi lo ha fatto indietreggiare sulle sue posizioni fino a metterlo con le spalle al muro e gli ha fatto gettare le armi a terra.
Tutto questo è di una contraddittorietà addirittura grottesca, quando lo si esamina alla cartina di tornasole della realtà, ma il vero dramma del “pensiero” (si fa per dire) contemporaneo non è – in ultima analisi – la non accettazione della Denkwürdigkeit del fatto religioso, bensì il rifiuto del contatto con la realtà che a quell’accettazione lo porterebbe passo dopo passo. L’acutissima penna di Lewis lo scriveva già, nelle diaboliche e mai troppo lette Lettere di Berlicche (altra omissione indicibilmente vergognosa dei sedicenti operatori culturali). Se invece di leggere – senza neanche capirlo – L’être et le neant avessero considerato con un minimo di onestà intellettuale quanto l’Inglese nel 1941 scriveva lo saprebbero: «Il tuo giovanotto è stato abituato, fin da ragazzo, ad avere nella testa una dozzina di filosofie irriconciliabili tra loro, che danzano insieme allegramente. Non considera le dottrine come, in primo luogo, “vere” o “false”, ma come “accademiche” o “pratiche”, “superate” o “contemporanee”, “convenzionali” o “audaci”. Il gergo corrente, non la discussione, è il tuo alleato migliore per tenerlo lontano dalla chiesa» (p. 5). Ecco perché quel mio amico, che ieri mi raccontava della donna che pretendeva d’impartirgli lezioni di evoluzionismo, non aveva veri appigli su cui condurre la discussione.
Chesterton, a sua volta, aveva messo a nudo queste contraddizioni anche prima di Lewis: «Un uomo denuncia il matrimonio come una menzogna, quindi denuncia il dissoluto stile di vita degli aristocratici perché lo trattano come una menzogna. Egli definisce la bandiera uno straccetto, e poi denuncia gli oppressori della Polonia o dell’Irlanda perché hanno strappato via quello straccetto. L’uomo di questa scuola si reca prima a un incontro politico, dove lamenta che i selvaggi siano trattati come se fossero bestie, quindi prende il proprio cappello e l’ombrello e si reca a un congresso scientifico, dove dimostra che essi sono praticamente bestie» (Orthodoxy, p. 66).
Attenti e profetici preconi dei mali culturali del nostro tempo, questi due esponenti di una lunga schiera di pensatori realmente censurati (altro che Indice!) hanno individuato i primi sintomi di un inquietante processo di atrofizzazione delle capacità collettive di pensiero, proprio nell’epoca della più estesa alfabetizzazione della popolazione mondiale. Sotto il sottile velo di un grande bene si annida quindi il mallo vuoto di democrazie in cui il suffragio universale spinge al potere persone sostenute o avversate per fattori come la simpatia, il portamento, la ricchezza o la bellezza; democrazie in cui dati che uno presumerebbe oggettivi, come l’entità del PIL, vengono presentati dagli esponenti delle diverse fazioni in versioni tanto distanti quanto potrebbero essere due distinte critiche di una tela impressionista. Il vero cancro di quest’ombra del pensiero che è il pensiero collettivo attuale è il suo essere composto quasi unicamente di luoghi comuni: l’apparente autoevidenza di ciascuno di essi conferisce a chi li getta sul tavolo di una conversazione la sensazione di aver detto cose chiare, condivisibili, qualche volta brillanti e quindi in un certo modo “vere”. I luoghi comuni sollevano, quindi, dall’esercizio vero e proprio del pensiero, laddove ve ne sostituiscono una versione facile e rapida, smart, che però non lascia neanche la possibilità di evitare di contraddirsi due volte di seguito in un solo periodo, «col ghigno e l’ignoranza / dei primi della classe» – era il bel guizzo d’intelligenza di un Guccini maturo.
Il problema dei luoghi comuni è che sono assurti a essere quello che sono perché non sono mai totalmente falsi: le loro verità monodose, però, diventano velenosamente false quando non possono più essere supervisionate da una ragione veramente critica e rigorosa. Così il caustico Léon Bloy coniava a cavallo tra il XIX e il XX secolo l’intuizione che sarebbe venuta alla luce nel 1902 come l’Esegesi dei luoghi comuni: «Il vero Borghese, vale a dire, nel senso più generale e moderno possibile, l’uomo che non fa alcun uso della facoltà di pensare e che vive o sembra vivere senza essere stato sollecitato, neppure per un giorno, dal bisogno di capire qualcosa, l’autentico e indiscutibile Borghese è necessariamente limitato nel suo linguaggio a un numero piccolissimo di formule» (p. 17). Ai dovuti distinguo che già Bloy pose sulla categoria di “Borghese”, la quale non va intesa come strettamente politica, né come strettamente sociale, il lettore contemporaneo deve aggiungere la coscienza che l’attuale borghesia (se mai abbia ancora senso chiamarla così) è cosa enormemente differente da quella di fine Ottocento. Fatto questo, però, e scremata pure la lingua del Francese dalle numerose asprezze dovute tra l’altro agli stenti patiti dall’Autore, si trovano nelle sue analisi (talvolta iperboliche) la fortuna di Maria De Filippi e il vaso di Pandora della nostra società: «Il repertorio delle locuzioni patrimoniali che gli bastano è estremamente esiguo e non va quasi mai al di là di qualche centinaio. Ah, se si avesse la benedizione di rubargli quest’umile tesoro, un paradisiaco silenzio cadrebbe subito sul nostro globo consolato» (ivi).
Restituire ai luoghi comuni il loro posto di diritto è il corrispettivo epistemologico del “dare a Cesare quel che è di Cesare”: va da sé che i discepoli di Gesù potrebbero/dovrebbero avere in questo un ruolo da capofila. Un onesto esame della faccenda, però, dovrebbe comprendere la revisione del ruolo che l’attuale chiesa occidentale conferisce – concretamente – al fare cultura.
Resta insuperata la lapidaria diagnosi di Paolo VI: «Il mondo soffre per mancanza di pensiero».