La novella criptata
«Nel 1969 scrivevo La buona novella.
Eravamo in piena rivolta studentesca; i miei amici, i miei compagni, i miei coetanei hanno pensato che quello fosse un disco anacronistico. Mi dicevano: “cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.” …. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La Buona Novella è un’allegoria.
Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali».
Queste righe sono tratte da una famosissima intervista a Fabrizio De Andre’, rilasciata anni dopo la pubblicazione de La buona novella. A dire il vero, l’album ha una storia strana: come non poche delle grandi cose, anche questa è nata per caso. L’idea era venuta a un certo Roberto Dané, che l’aveva proposta a un altro. Questi, allora, sapendo della crisi d’ispirazione che affliggeva De Andre’ in quel periodo, rimandò Dané da lui. E il Faber si mise all’opera. Come non è rarissimo che i matrimonî combinati siano poi quelli che riescono meglio (anche perché le aspettative sono in genere così basse che la vita le supera ampiamente), così nei decennî successivi De Andre’ ha più volte parlato de La buona novella come di uno dei suoi migliori lavori, se non il migliore. La breve dichiarazione che ho riportato sopra chiarisce in modo nitido l’approccio da cui è scaturita l’impostazione dell’opera. A rigirarsi tra le dita il foglietto coi testi e tutto il resto si trovano anche approssimazioni imbarazzanti, degne di Dan Brown: andate a cercare come è spiegato il senso dell’espressione “Vangeli apocrifi”, per esempio…
Sì, perché la trama dell’opera è ricavata da un liberissimo intreccio tra vicende contenute nei vangeli “canonici” e vicende contenute in varî “apocrifi” – vicende tanto segrete e condannate da essere perfino affrescate nelle chiese (Gioacchino e Anna, la consacrazione di Maria al tempio…)! Ma erano gli anni in cui la parola “apocrifo”, di per sé, faceva gola a un’ampia fascia di insoddisfatti con un piede dentro e uno fuori dalla Chiesa. L’ultimo periodo di quello stralcio d’intervista che ho riportato sopra dà le due coordinate (una più chiara e netta, l’altra quasi invisibile) della composizione: la prima è che De Andre’ ritiene che Gesù si sia fatto crocifiggere “per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità”, nonché “in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali”; la seconda è che le istanze di Gesù vengono riconosciute “molto più vaste spiritualmente”.
Parole vaghe, termini equivoci. Gran musica però, e testi molto ben composti.
Lo schema dell’opera è inquadrato tra due brani dallo stesso tema musicale e dai titoli molto simili: Laudate Dominum e Laudate hominem. La vicenda di Gesù viene presentata ad un tempo come ciò che ha propugnato il primo vero grande umanesimo ateo (pare che non ci sia bisogno di “Dio” per capire questo “Gesù”) e come ciò che solo ora verrebbe riscoperto onestamente, ossia “la vera identità di Gesù”. Quest’ultima vorrebbe ancora essere, come vedevamo la scorsa volta, quella di un uomo “come Dio passato alla storia” (Si chiamava Gesù, 1967), ma qualcosa s’intrufolerà – vedremo – a “infettare” di nascosto questa cristologia tutta terrestre. Laudate hominem, in particolare, opera la ricapitolazione conscia del senso dell’opera: dopo un confuso farfugliare di un “Potere” contrapposto al genericissimo “noi” dei manifestanti sessantottini, il testo arriva alla netta anti-confessione cristologica: «No, non posso pensarti Figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio» (e di volta in volta il verbo servile cambia, per conferire diverse sfumature: “posso”, “voglio”, “devo”).
Anticipiamo qui ciò che l’album lascia in fondo per mostrare a scanso di equivoci dov’è il reale fraintendimento su cui poggia il contenuto sbilenco dell’opera: i titoli di “Figlio di Dio” e di “figlio dell’uomo” vengono presi come antitetici e reciprocamente esclusivi – laddove invece vengono entrambi dallo stesso parterre terminologico, che è quello della rivelazione scritturistica (sì, anche “figlio dell’uomo”!). Che Gesù non possa essere contemporaneamente “figlio dell’uomo” e “Figlio di Dio” neutralizza in radice ogni possibilità che si dia una “buona novella” nel senso pieno e sodo che il Cristianesimo soltanto ha conferito all’espressione.
I testi sono tanti, e variamente belli (alcuni con dei veri picchi lirici!), ma qui vorrei limitarmi soltanto a richiamare due punti salienti più una curiosità.
La curiosità ha a che fare con la cristologia vera e propria soltanto “di sponda”, in quanto riguarda il brano dedicato all’annunciazione, chiamato (con fraseologia meno oleografica) Il sogno di Maria. La ragazzina, al termine della sua “sacra reclusione” nel tempio, viene visitata da un angelo che la trasporta in una dimensione onirica dai toni surrealisti: «Volammo davvero sopra le case / oltre i cancelli, gli orti, le strade; / poi scivolammo tra valli fiorite, dove all’ulivo di abbraccia la vite…». Le evocazioni sono velatamente erotiche, ma si resta dubbiosi davanti ai proprî pensieri finché non si arriva al dunque: «…e lui parlò come quando si prega / ed alla fine d’ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena». Ecco che l’incanto diafano delle visioni oniriche svanisce, per lasciare spazio alla scandalosa schiena nuda della Madonna, con le inquietanti dita che ne percorrono la colonna vertebrale come sgranando un inusitato rosario. Qui sta la curiosità: non stupisca troppo, ma anche questa trovata non è una novità assoluta (ho già avuto modo più volte di dire che la maggior parte delle cosiddette “nuove idee” non è che la nuova elaborazione di vecchî errori). V’è stato un tempo – tra il II e il III secolo dell’era cristiana – in cui non solo non era chiaro chi fosse il Figlio di Dio, ma neppure chi fosse Dio (immaginatevi voi, vivere da monoteisti con almeno due persone che dichiarano concordemente di essere “il vero Dio”!): cercando di far quadrare i conti, allora, certuni s’immaginarono che il Figlio di Dio fosse l’arcangelo Gabriele (o viceversa), e che lui… sentite, è più chiaro se vi riporto il testo. «Non ricordate – è Gesù-Gabriele che parla – che vi ho detto poco fa: “Son divenuto un angelo fra gli angeli e tutto in tutti”? […] In quel giorno, quando presi l’aspetto dell’angelo Gabriele, apparvi a Maria e parlai a lei. Il suo cuore mi accolse e credette. Io mi diedi forma ed entrai nel suo seno e divenni carne. Io solo infatti fui ministro di me stesso, per quanto riguarda Maria, e fui percepito sotto l’aspetto di un angelo» (Epistula apostolorum 14). Non c’è che dire: un angelo “carnale” sotto molti punti di vista.
Adesso invece i due punti salienti, che sono rispettivamente nella prima e nella seconda metà dell’opera, e hanno entrambi il tema della divinità di Cristo e il personaggio di Maria al centro. Proprio ne Il sogno di Maria l’angelo si esprime con linguaggio sibillino: «Lo chiameranno Figlio di Dio» – e Maria riporterà: «Parole confuse nella mia mente, / svanite in un sogno / ma impresse nel ventre». Le parole dell’angelo, in effetti, non sono né più né meno che quelle riportate dal Vangelo canonico di Luca (1,35): certo che in un contesto in cui la divinità di Cristo pare perlomeno un argomento scomodo l’uso di questa forma verbale si fa tanto più ambiguo che nel testo canonico.
L’altro punto, invece, è in Tre madri, uno dei cammei più splendidi dell’album: sul calvario di De Andre’ Gesù tace – parla uno dei ladroni (il cattivo, tanto per cambiare, quello testardamente impenitente), parlano le madri dei tre condannati. L’unica voce di De Andre’ si alterna sui temi di Maria, la madre di Gesù, e delle altre due (anonime) figure femminili. Cominciano le madri dei ladroni, e dopo aver compostamente versato ciascuna le proprie lacrime, le due si uniscono a commentare le sommesse lacrime di Maria: «Con troppe lacrime / piangi, Maria, / solo l’immagine d’un’agonia: / sai che alla vita / nel terzo giorno / il figlio tuo / farà ritorno», e proseguono (come a confermare la portata tragicamente reale del loro discorso): «Lascia noi piangere / un po’ più forte / chi non ritornerà / più dalla morte». Questo è il punto più vicino a una professione di fede in tutto l’album (anche la replica di Maria, cui arriviamo subito, non è completamente all’altezza di queste “socie di dolore”), e vale la pena considerare una cosa: l’espressione “l’immagine di un’agonia” suona molto strana in contesto cristologico, in cui non è mai mancato qualcuno che – temendo di intaccare pericolosamente la divinità di Cristo – ritenesse che il corpo di Cristo, quello che fu crocifisso, in realtà ebbe solo l’apparenza di corpo (e nient’altro). Non è questo il senso da dare alla frase nel nostro contesto: qui si vuole intendere semplicemente il fatto che l’angoscia di quelle ore, per Maria (e per Gesù) era già trascurabile in quanto destinata a durare poco.
La risposta di Maria è uno struggente pianto (come quelli che le laude medievali ci hanno abituato a conoscere) che culmina in una dichiarazione d’amore materno e un’invocazione a metà tra la supplica della creatura e l’imprecazione della peccatrice: «Come nel grembo / e adesso in croce / ti chiama “amore” / questa mia voce; / non fossi stato / figlio di Dio / t’avrei ancora / per figlio mio». È la confessione di chi riconosce nell’evento drammatico il compimento tremendo di un misterioso volere divino? È il lamento impotente della madre che inveisce sulle mortifere passioni del figlio («Sempre con quest’idea di “Dio”!»)?
Il testo è ambiguo e lo resta. Questa ambiguità, però, è propria dell’album intero: quando chiesero a De Andre’ come mai non ci fosse alcun brano dedicato alla risurrezione, egli rispose qualcosa come che «la storia, ufficialmente, finisce al sepolcro chiuso. La risurrezione c’è per i credenti». Al contrario: la risurrezione è tale che solo alla fiducia è dato di scorgerla distintamente, ma proprio per questo non brani a parte sono il suo posto, ma precisamente questi brevi, fugaci e incisivi accenni. Nessuno ha visto la risurrezione, mentre moltissimi vivono per testimoniare di aver incontrato e di conoscere il Risorto.
Che vuol dire ciò? Che De Andre’ credesse, tra il ’69 e il ’70? Pare azzardato concludere questo, mentre sembra più onesto e prudente ammettere che probabilmente – se non altro – in quel tempo credeva di non credere. Ma soprattutto vuol dire un’altra cosa: che perché una cristologia resti un tantino significativa è necessario che non ne venga estirpata ogni componente “numinosa”, e difatti la sua cristologia, pure molto inviluppata in temi affrontati senza grande padronanza dei testi, non manca di questi spunti.
Non conosco altre parole,non capisco altre voci,se non quelle che penetrano, fluiscono e pulsano dentro lasciando tracce indelebili.Non conosco e non capisco altra umanità se non quella così tanto umana da lambire il divino. So solo che ci sono cose che mi aiutano a capire,che mi danno gioia, che mitigano i miei dolori,che fanno barcollare le mie superbie,che mi riconsegnano, nel sarcasmo,nello smarrimento,nell’accidia o nell’amore ad una dimensione di ” Sabbia e di Bianco”.