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Vestito di sabbia e di bianco

Fulminanti lampi poetici per una cristologia tutto sommato debole: Fabrizio De Andre’

Fabrizio De Andre’ è stato uno dei cantautori italiani più costantemente tormentati dalla figura di Gesù: sulla sua “teologia” sono state composte ricerche accademiche poi pubblicate in edizioni divulgative (ricordo, per tutte, solo Dal letame nascono i fiori e Il vangelo secondo De Andre’), e spesso si sente parlare in modo più o meno vago del “cristianesimo di De Andre’”.

La faccenda è molto complessa, e chi fosse interessato ad approfondire troverebbe certamente pane per i suoi denti nei titoli appena riportati; noi c’intratteniamo soltanto su una canzone, scritta nel 1967, tre anni prima del grande album a “tema sacro” – La buona novella. A mo’ di cornice va comunque detto che, se i riferimenti a Dio e a Gesù Cristo (in sostanza sempre appaiati, più o meno esplicitamente) sono disseminati un po’ ovunque nei testi di De Andre’, le elaborazioni più chiaramente tematizzate sono proprio nell’album del ’70 e nel singolo del ’67 – Si chiamava Gesù (clicca link).

I sentimenti e i pensieri che per Gesù si esprimono non sono in tutto e per tutto identici, in questo e in quello: l’album si svolge con una misura larga e ariosa, che dà tempo di sviluppare molti pensieri e in modo meno contratto; il singolo evidenzia in confronto uno stadio di ricerca e di pensiero ancora un tantino acerbo, dai movimenti concettuali nervosi, anche se molto ben disposti.

Il testo (clicca link) si svolge infatti in quattro stanze dai rimandi formali e stilistici chiaramente definiti: la prima e la quarta condividono valutazioni complessive, tra loro antitetiche, sul valore del passaggio di Gesù nella storia (nota bene, non è una “venuta nel mondo”), orientate la prima al misterioso “ingresso” e l’ultima a una generalissima “uscita”. Le due strofe centrali, invece, espongono il contenuto essenziale della cristologia di De Andre’, ma con un’onesta premessa metodologica in capo alla prima di queste (ovvero alla seconda): «Non intendo cantare la gloria, / né invocare la grazia o il perdono / di chi – penso – non fu altri che un uomo / come Dio passato alla storia».

Grandi critiche sono piovute su De Andre’ per questa impostazione, tanto asciutta quanto crudamente aconfessionale (completamente fuori luogo dirla “eretica”!): vero che “una lettura aconfessionale di Gesù” ha sempre qualcosa da offrire, al credente e al non credente, ma di rado i nostalgici del libero pensiero (che perlopiù non hanno mai conosciuto) sanno spingere i loro macinini cerebrali fino a considerare che un tema del genere può incorrere in svolgimenti a dir poco problematici – e per ragioni di coerenza interna, non di censura esterna! Albert Schweitzer aveva mostrato, con la propria dissertazione dottorale in teologia, che praticamente tutti quelli che negli ultimi due secoli prima di lui avevano voluto parlare del vero Gesù erano finiti per spacciare al mondo un’immagine di Gesù che non assomigliava all’uomo illustrato nei vangeli più di quanto assomigliasse a colui che di volta o in volta ne pubblicava “il vero ritratto”. Un corto circuito. Ma si fa presto, senza neanche rendersene conto: quando si cerca una sinossi brutale dei Vangeli, o si opera una selezione arbitraria dei dati che contengono, s’è già deciso di ritagliare un’immagine di Gesù che stia bene a noi almeno quanto vorremmo che stesse bene a lui. Esempio: «Togliamo la moltiplicazione dei pani e dei pesci!» – «Perché?» – «Ma perché è chiaro che non può essere avvenuta, tanto per cominciare perché i pani e i pesci sono discreti e non continui!». Al che nessuno osa replicare, o per timore di mostrare che non sa la differenza tra insiemi discreti e insiemi continui o per non esporsi al pubblico ludibrio con la stupidissima domanda: «Ma che c’entra la discrezione dell’insieme dei pani e dei pesci col miracolo della moltiplicazione?!». La quale, peraltro, sarebbe la domanda giusta. Ma non si fa, e il “teologo” di turno può finalmente spiegare al mondo che cosa nei Vangeli è vero veramente e cosa è vero per finta.

I “liberi pensatori” arrivano talvolta persino a teorizzare che è Dio che vuole che su Gesù ognuno possa dire la prima cosa che gli salta in testa – ma perché mai darsi l’impaccio di dire che Dio c’è, e quindi di chiedersi perlomeno che cosa ne pensa di quel Gesù che si spaccia per suo Figlio, se non si accenna a voler dare risposta? Tanto vale negare tutto in partenza, no? Sì, anche questo si può leggere, in rete: sono liberi pensatori, no? Si vede che del loro pensiero non devono rendere conto neanche alla ragione.

Ma perché mi sono dilungato su queste cose? Ah, sì, per ricordare che c’è un rischio serio che si corre ogni volta che si racconta un’altra volta chi è Gesù – quello di proiettare nella figura di Gesù non poco di ciò che si è o che si vorrebbe essere. De Andre’ corre questo rischio, e neanche lui è esente dal cadervi. Per inciso, già che ci siamo: è vero che fare una cristologia significa precisamente raccontare uno scorcio della persona di Cristo, necessariamente parziale data la sua inesauribilità divina, ma tenere un orecchio al dogma evita di parlare di Cristi che, per fascinosi che siano, del vero Cristo hanno forse poco.

Comunque l’affresco di De Andre’ è tutt’altro che insignificante, e ora possiamo dedicarci a coglierne le vive luci senza timore di confonderle con le ombre: l’origine di Gesù è lasciata in un’oscurità fiabesca – «Venuto da molto lontano…» – e non so se il Faber sapesse (come invece noi sappiamo) che generalmente il principe delle fiabe è proprio un personaggio cristologico… Il fine della sua missione, poi, è tanto chiaro quanto ampio: «A convertire bestie e gente» è un verso difficile – forse fa riferimento a uomini bestiali, forse a teorie animaliste in voga negli anni ’60, o forse a niente, e serviva una sillaba in più al verso.

La cosa interessante – uno dei punti più belli del testo – è la prima valutazione sulla vicenda di Gesù: «Non si può dire non sia servito a niente, / perché prese la terra per mano». Col suo portato biblico e teologico, «prese la terra per mano» è un enunciato di forte concisione e grande densità poetica: la sua missione fu tendere la mano alla terra che Adamo era (e innalzarla oltre le stelle, ma questo il testo non lo dice). L’Autore intendeva questo, o non indicava piuttosto le problematiche sociali e le emergenze economiche, nel sostrato semantico di “terra”? Ancora un teologo potrebbe fantasticare lungamente sull’espressione «vestito di sabbia e di bianco», visto che nel sabbia, colore della terra, e nel bianco, colore della luce, si potrebbero scorgere riferimenti alle due nature di Cristo. Ma il testo non ha intento confessionale e snobba volutamente i sostegni dogmatici, come avevamo visto anticipando quanto qui segue immediatamente.

De Andre’ s’arrende al mistero che, in Gesù, supera la dimensione della semplice umanità: sceglie però di scartare la parola “sovrumano” (che pure calzerebbe a pennello al suo pensiero, ma puzza troppo di divinità) prediligendole “inumano”. Sì, perdonare il proprio assassino «con l’ultima voce» è sempre stato un solido argomento in difesa della trascendenza del cuore umano; peccato che qui De Andre’ glissi sul fatto che quel perdono non è una faccenda privata tra lui e i suoi carnefici, bensì – stando ai testi che ce la riportano – una preghiera d’assoluzione. Eh, sì – stavolta devo proprio dirlo: in tutta la storia il dogma cristologico è stato trattato sempre come una coperta troppo corta. In qualche epoca (molte, a dirla tutta) s’è temuto di esaltare troppo l’umanità di Cristo a scapito della sua divinità; in qualche altra il contrario, e così s’è battuto fortissimamente il martello su tutto quanto poteva farlo apparire “più umano”, per timore che a forza d’incenso lo sembrasse meno. De Andre’ appartiene a un ambiente culturale in cui imperversava (e tuttora imperversa, meno rigida) una temperie del secondo tipo.

La terza strofa è quella in cui l’impostazione che abbiamo detto or ora produce i risvolti più deboli del pensiero dell’Autore: visto che il dramma di Gesù non è il dramma dell’uomo-Dio, la sua morte è giustificata unicamente dall’invidia farisaica di una classe sociale che l’ha voluto far fuori, e ciò che resta più seccamente escluso dal cerchio della comprensibilità è l’agonia del Getsemani. Visto che ammettere che Gesù abbia parlato con Dio alla vigilia della sua passione implicherebbe la reale ed effettiva esistenza di Dio (nonché relativo legame con Gesù) oppure l’evidente e innegabile malattia mentale di Gesù (con nuances di mitomania), De Andre’ fa che invece Gesù piange “l’addio” «per quelli che l’ebbero odiato». Il dramma del silenzio del Padre, delle due volontà da accordare nell’obbedienza filiale, tutto questo lascia il posto a una filantropia ai limiti della dabbenaggine. Sì, perché quel Gesù che nei vangeli pur chiede fermamente il perché della sberla che gli viene data qui non fa differenze: vuole così tanto bene agli uomini (perdona tutti, no?) che piange allo stesso modo per chi lo uccide e per chi lo adora, e accetta allo stesso modo le lacrime di chi lo ama e la corona delle spine dell’odio. In fondo la croce è l’ultima tappa della vicenda umana di Gesù, no? Doveva rendersene conto anche lui – il Gesù (di De Andre’) – tanto da risolversi a raccogliere indifferentemente come ultimo saluto «la preghiera, l’insulto e lo sputo».

Questa morte è cosa ben più banale di quella cui non solo la Scrittura e la teologia, ma anche le più popolari delle devozioni, ci hanno abituati: eppure anche De Andre’ è stato a questa scuola, tanto che l’ultimo distico richiama (senza un evidente motivo) i temi patetici dello Stabat Mater e perfino la metafora psicosomatico-floreale di Jacopone da Todi («sbiancò come un giglio»: non c’è qualcosa di simile anche ne La domenica delle salme?).

La valutazione di De Andre’ su Gesù non può che essere ben meno rosea, a conti fatti, di quanto forse egli stesso spererebbe e vorrebbe: il fatto è, però, che quel Gesù cui sono state portate via tutte le reali prerogative, non può fare una morte migliore di quella con cui «tutti si muore». In fondo «non si può dire che sia servito a molto»: è proprio l’aver ritagliato dal profilo di Gesù tutto quanto poteva estirpare dalla sua terra il male che ha impedito all’ottimo De Andre’ di osservare che le virtù di Gesù sono state «forse un po’ troppe» solo in ordine a un obiettivo che il vero Gesù mai si prefisse.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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7 Comments on Vestito di sabbia e di bianco

  1. gabriella di vita // 2 Giugno 2011 a 08:50 //

    Non VOGLIO, non POSSO,pensarLo figlio di Dio ma figlio dell’uomo,fratello anche mio.
    Gesù riporta un Dio chiuso nei Tempio dai poteri vestiti di umana sembianza tra gli uomini,De Andrè tenta di riconsegnare La Buona Novella, anch’ essa spesso costretta ad asservirsi alla fredda logica dell’istituzionalizzazione,al Verbo Vivo.

    • Questa è ideologia, Gabriella – e scusa se lo dico così direttamente. Come fa a dirsi “vivo” (in che senso?) il “Verbo” che non racconta d’altro che d’un povero illuso smentito, nei fatti, dalla vittoria del potere? «Non si può dire che sia servito a molto»… no? In fondo la logica deduzione delle premesse.
      Ma c’è di più: la realtà (quella ignorata da certe ideologie sessantottine) è fatta di uomini e donne (tanti) d’ogni condizione socioculturale che conoscono Gesù, vero, vivo egli stesso (non “i suoi ideali”), e sembrano riuscire a vivere una relazione con lui proprio in quella Chiesa che per tanti è motivo…

    • Inoltre… non è troppo dogmatico “per te” (ma non è una domanda meramente personale) asserire che uno ha ragione sempre e comunque? Che “Buona Novella” c’è nel non VOLERLO pensare Figlio di Dio, nel non POTERCELO pensare? La buona notizia – se una ce n’è – è proprio che questo Figlio di Dio è veramente figlio dell’uomo, “fratello anche mio”, ovvero che questo mio fratello, veramente figlio dell’uomo, è davvero Figlio di Dio. Diversamente non c’è nient’altro che l’ennesima notiziola di cronaca di periferia.
      La citazione che hai fatto, comunque (e che io ho raccolto), appartiene a uno stadio successivo e, a mio avviso,…

    • Intendo che “La buona novella” è certamente più compiuto, come lavoro, di “Si chiamava Gesù”, ed è anche meno pessimista nella valutazione complessiva del fenomeno di Gesù. Magari m’intratterrò su questo secondo aspetto, prima o poi…

      Ti ringrazio molto, però, del commento: non si commenta per essere d’accordo, ma per scoprire quante cose diamo per scontate, tutti, senza che lo siano.

  2. tobias // 29 Maggio 2011 a 16:47 //

    che il gesu di de andrè sia diverso dal gesu della chiesa cattolica e delle sue gerarchie non può che essere un complimento per il Faber…..

    • Commento lecito, Tobias, ma quale sarebbe il suo senso? Che quello del Faber sarebbe “il vero Gesù” solo perché alternativo rispetto a quello della Chiesa cattolica? Che criterio è questo?

    • forse è proprio grazie alla Chiesa che Gesù viene nella storia…è lei che lo annuncia, lo vive e lo testimonia!
      P.S. non guardare la Chiesa solo come istituzione che sbaglia-pecca- è incoerente con quello che annuncia , perchè la chiesa è innanzitutto la comunità di credenti!!!!

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