“L’accoglienza è l’imitazione più alta di Dio”
"C’è un disegno nella vita - sottolinea monsignor Camisasca -, la scoperta che un amore ci precede, che non siamo voluti dal caso. Per questo, chi non vive l’esperienza del padre e della madre, dev’essere aiutato a scoprirla attraverso altre persone e poi, infine, in Dio e nella Chiesa, perché se la persona non scopre di essere amata non sa amare"
«L’accoglienza è qualcosa che riguarda la vita di tutti gli uomini e la vita di ogni uomo, perché senza entrare in questa esperienza non si è uomini». Nelle parole di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, la sintesi del concetto di fondo espresso dal libro “Il miracolo dell’ospitalità” – edito da Piemme – scritto dal fondatore di Comunione e liberazione don Luigi Giussani, presentato ieri al folto pubblico pescarese intervenuto nell’Auditorium della parrocchia della Beata Vergine Maria del Rosario di Pescara.
L’appuntamento, organizzato dall’arcidiocesi di Pescara-Penne e moderato dal giornalista di Rete 8 Luca Pompei, è stato promosso dall’associazione Famiglie per l’accoglienza – in collaborazione con l’associazione Stella del mare e con il Centro culturale di Pescara – che opera in Italia e a livello internazionale nella promozione e nell’attuazione delle pratiche dell’affido e dell’adozione fin dal maggio 1982, quando è nata a Milano dall’esperienza di alcune famiglie le quali – dopo l’incontro con don Giussani da cui è nato il libro stesso – si sono riunite nell’organizzazione attuale.
Un incontro, quello di ieri, fortemente voluto dall’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti: «La dimensione dell’accoglienza della vita – esordisce il presule – non significa solo accogliere quella nascente nel grembo di una madre, ma anche quella che fa fatica a camminare da sola o attraverso i genitori naturali, sia che essi vengano fuori sia che non vengano fuori. Esprimo, dunque, una predilezione del tutto personale sull’affido rispetto all’adozione, ma in questi giorni scorrendo il libro di monsignor Giussani e la nota storica di Carla Massari, mi sono imbattuto nelle varie dimensioni dell’accoglienza della vita».
Ma, a detta dell’arcivescovo di Pescara-Penne, c’è un paragrafo di questa storia veramente molto interessante “I bambini della povertà e della guerra, l’accoglienza che non ha confini”: «Credo che su questo – osserva monsignor Valentinetti – ci sia una riflessione ulteriore da fare, facendo tesoro di quella che è stata la storia delle famiglie che hanno vissuto questa esperienza di accoglienza e facendo, forse, delle progettazioni per quella che potrebbe essere la dimensione dell’accoglienza nei confronti dei ragazzi, dei bambini, delle persone che sono in difficoltà».
L’esempio pratico arriva dal tema dell’immigrazione: «Sappiamo bene – sottolinea l’arcivescovo – quanti minori sbarcano sulle nostre coste, molto spesso non accompagnati e totalmente scevri da legami familiari immediati. Bambini che fuggono dalla povertà e dalla guerra, quando essi stessi non sono stati bambini guerrieri. Il problema è immenso, sotto questo punto di vista, quindi occorre un’accoglienza che non ha veramente confini».
Da qui l’analisi del libro da parte di monsignor Camisasca, a partire da un’espressione usata da don Giussani “Vivere è partecipare a qualcosa d’altro”: «Perché vivere è partecipare? – s’interroga – Perché la vita non la riceviamo da noi stessi, nessuno di noi può darsi la vita e nessuno di noi se l’è data. È questa l’esperienza più grande che possiamo fare nella maturità. Io mi sono trovato a vivere qui, perché vengo da altri, da altro. È la sorpresa di esserci, la scoperta di essere creatura. L’umano comincia da qui, quando scopriamo di essere creatura, di non essere creatori di noi stessi. Una verità molto contestata, questa, con la nostra società che va esattamente nella direzione opposta di dire “Signore, siamo ad un passo dal crearci”. Qui sta il crinale tra l’umano e il disumano, nello scoprire e accettare di non essere Dio e quindi di essere stato fatto, di essere fallibile».
Ma la società attuale non accetta che l’uomo sia fallibile, che possa essere limitato: «Si ha paura – denota l’assistente spirituale dell’associazione Famiglie per l’accoglienza – di tutto ciò che no può essere governato e dominato dalle leggi che abbiamo stabilito. Sanità umana e cristiana è riconoscere che è costitutivo dell’uomo e della donna la fallibilità, la precarietà. Riconoscere che abbiamo bisogno è costitutivo, perché avere bisogno vuol dire stabilire dei rapporti, aiutarsi. Vivere è ricevere dall’altro qualcosa che mi fa crescere, che mi rende grande. Vivere è accettare di essere amati, accettare che io non mi sono fatto da me perché un amore mi ha voluto. L’amore di mamma e papà. Ma quando non ci sono, o non ci sono più o si sono divisi o si sono ribellati alla vita?».
Perché se Dio esiste, a detta del vescovo di Reggio Emilia, lo si documenta alla persona che viene su nella vita attraverso una paternità e una maternità: «Possono avere l’esperienza di un padre e di una madre – spiega -, cioè l’esperienza della bontà della vita, pur dentro le drammaticità e le tragedie che possono costituirla. C’è qualcuno che mi ha voluto, c’è qualcuno che vuole questo grande e bel mondo in cui siamo. Per questo, distruggere la natura è sempre distruggere un po’ dell’esperienza di Dio in noi. C’è un disegno nella vita, la scoperta che un amore ci precede, che non siamo voluti dal caso. Per questo, chi non vive l’esperienza del padre e della madre, dev’essere aiutato a scoprirla attraverso altre persone e poi, infine, in Dio e nella Chiesa, perché se la persona non scopre di essere amata non sa amare. Questo è il dramma che si apre in tante vite, come posso amare se non sono sicuro di essere stato amato?».
Da questo presupposto, scaturisce il sigillo di Dio nella vita dell’uomo, che è soprattutto il suo essere bisognoso dell’altro: «Ed è il nostro bisogno – sottolinea monsignor Massimo Camisasca – di essere amati gratuitamente, di essere amati in quanto ci siamo. Io sono frutto di un dono gratuito, non di qualcuno che mi ha voluto perché potessi rendergli il contraccambio, ma di qualcuno che mi ha voluto perché io fossi. L’amore più alto è l’amore gratuito, quello che vuole che l’altro sia, mentre oggi non si vuole che l’altro sia ma che l’altro mi serva. Quindi la forma più alta dell’accoglienza è donare se stessi, come fa il Padre col Figlio e il Figlio col Padre, e l’accoglienza è dunque l’imitazione più alta di Dio, perché Dio è da sempre accoglienza del Padre che accoglie il Figlio e del figlio che accoglie il Padre da cui è generato. Il Padre accoglie il Figlio che, rispondendo alla gratuità di questa generazione, ama gratuitamente il Padre fino ad accettare l’estrema lontananza della morte, per amore degli uomini che il Padre gli ha dato nelle mani. Dio non ci ha voluti per un progetto su di noi, ma perché semplicemente lo conoscessimo e partecipassimo alla sua vita. E continuamente ci raccoglie e ci risolleva dalla nostra lontananza».
Infine, monsignor Camisasca ha voluto approfondire il significato di un’espressione particolare riportata da don Giussani nel libro, “L’accoglienza è il perdono della diversità”, che altrimenti potrebbe essere travisata: «Quando io perdono – chiarisce il vescovo -, l’altro torna a far parte della mia vita e rinasce un’alleanza vitale. L’assenza di perdono è mantenere una distanza. Il perdono è un cammino lungo, una ricostruzione di sé, un riammettere l’esperienza dell’altro come qualcosa che fa parte di me. Quando Gesù dice “Amate i vostri nemici”, ha voluto dire che non c’è esperienza, per quanto lontana e contraddittoria, che non possa essere integrata nella mia umanità. Il perdono della diversità, quindi, vuol dire che accogliere è portare la diversità dell’altro come costitutivo della mia persona. Per questo, l’accoglienza per dono della diversità è la forma più alta dell’imitazione di Dio, perché Dio si muove costantemente verso di me per rendermi partecipe della sua comunione con me».