Quei simpaticoni dei farisei
Uno dei luoghi comuni più diffusi sul Vangelo e sui suoi personaggî principali è quello sui farisei: essi vengono generalmente ridotti ai due soli tratti dell’ipocrisia e del legalismo, anzi questa stilizzazione è tanto comune e diffusa da aver portato il nome “fariseo” a significare precisamente queste due cose. Tali tratti del personaggio farisaico sono effettivamente risalenti alle labbra di Gesù stesso, e non c’è motivo di dubitare della loro rispondenza alla realtà; e tuttavia essi vedono addirittura stravolgersi il loro significato, se vengono estratti dal loro contesto, perché letti invece nel loro contesto essi mostrano addirittura una certa simpatia di Gesù per i farisei. Prima di procedere, e di provare a illustrare questa parte poco raccontata delle simpatie di Gesù – che non voleva bene solo ai pubblicani e alle prostitute – è bene fermarsi anzitutto a considerare questa semplice cosa: Gesù è spesso impegnato coi farisei, e la cosa è tutt’altro che scontata, come il capitolo 22 del Vangelo secondo Matteo mostra chiaramente.
Dopo aver raccontato una bella e difficile parabola – quella del re che manda a chiamare gli invitati per le nozze di suo figlio – Gesù viene attaccato da due fronti contrapposti: prima i farisei mandano i loro giovanotti più promettenti (insieme con un gruppo di lealisti dell’ormai perduta monarchia giudaica) a stuzzicare Gesù sulla delicata questione dell’occupazione romana in Palestina, col pretesto del tributo a Cesare. Vedendo la genialità inusitata dello stratagemma con cui Gesù sbaraglia la trappola postagli, si fanno avanti i sadducei (Matteo sottolinea: «In quello stesso giorno» [Mt 22, 23]), con un trabocchetto di tutt’altro tipo, che voleva approdare al medesimo risultato di sconfessare Gesù portandolo alla contraddizione, ma su tutt’altro piano: si trattava infatti di un tranello che usava un versetto della Scrittura (quello che prescriveva la legge del levirato [Deut 25, 5-10]) alla stregua di come i farisei avevano usato il denaro del tributo. L’intenzione di questi era infatti usare il denaro non per delegittimarne il valore, ma per portare Gesù a scegliere tra il collaborazionismo con gli invasori o la solidarietà con quanti si ribellavano a Roma (anche con le armi); l’intenzione degli altri, in modo analogo, era usare il versetto del Deuteronomio per spingere Gesù a schierarsi dalla loro parte (Matteo li presenta succintamente come “quelli che negano che vi sia una risurrezione” [Mt 22, 23]) o da quella dei farisei. Come nel primo caso, Gesù rifiuta in blocco l’alternativa posta dai suoi interlocutori e sposta il discorso su un altro piano, dove è lui a dettare le regole del gioco (e dell’interpretazione della dottrina sacra): i farisei non gli avevano citato la Scrittura, e Gesù non ha risposto con la Scrittura; i sadducei, invece, gli avevano posto il tranello a partire da un versetto scritturistico, e mediante un versetto scritturistico Gesù ha bloccato il loro ragionamento.
La reazione alle due questioni, inoltre, era stata molto diversa: ai giovani farisei Gesù aveva risposto con una domanda stizzita – «Perché cercate di incastrarmi, ipocriti?!» (Mt 22, 18) – cui era seguito lo strepitoso contropiede dell’immagine di Dio contro quella di Cesare – «Date dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21) –; ai sadducei, invece, era toccata un’umiliante stroncatura, che non lasciava appello a replica alcuna – «Vi sbagliate, dal momento che non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). I sadducei, infatti, non osano più rivolgere la parola a Gesù; la cosa non poteva essere sfuggita ai farisei, che erano già di per sé ai ferri corti con gli altri, e non poteva essere spiaciuta loro. Difatti – Matteo annota: «Avendo saputo che [Gesù] aveva ridotto al silenzio i sadducei» (Mt 22, 34) – riprovano immediatamente ad affrontarlo, e stavolta a parlare non è un brillante giovanotto, ma «uno di loro, giurisperito» (Mt 22, 35), insomma doveva essere ritenuto uno con parecchie cartucce da sparare davanti a quell’osso duro di Gesù. Stavolta la domanda è più sottile, il trabocchetto è nascosto infinitamente meglio, sotto le parole cortesi di un bravo avvocato: «Maestro, qual è nella legge il precetto grande?» (Mt 22, 36). E Gesù risponde, stavolta anche a loro, citando la Scrittura (visto che sulla Scrittura era stato interrogato): «“Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutta la tua forza” [Deut 6, 5]: questo è il primo precetto, quello grande. E il secondo è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” [Lev 19, 18]. In questi due precetti si riassumono la Legge e i Profeti» (Mt 22, 37-40).
L’impressione che Gesù fece con questa risposta dovette essere notevole, perché Matteo non ha repliche da riportare: i farisei, anzi, gli si fanno vicini, in silenzio, e a quel punto è Gesù che rilancia sulla Scrittura, ma alludendo a se stesso in un modo così alto e sottile da prodursi alla fine in un invito che quelli non sembrano aver saputo accogliere. Gesù chiede infatti del Messia, da dove secondo loro dovrebbe spuntare: quelli – giustamente, perché loro la Scrittura la conoscono – rispondono che dovrebbe essere uno della stirpe di Davide. E qui Gesù li aspetta per spiazzare loro e tutti i lettori di Matteo, compresi noi: Matteo infatti aveva iniziato il suo Vangelo proprio nel segno di Davide, premettendo a ogni racconto di fatti e di persone la genealogia di Gesù da Abramo a Giuseppe, passando per Davide (Mt 1, 1-17). Tutta la genealogia si era compiuta nel segno di Davide (il numero “14” indicava proprio il nome “Davide”, e lo si trova che scagliona per tre volte l’elenco dei nomi), ma d’altro canto essa era stata sottilmente interrotta – perché Matteo sa, e dice!, che Giuseppe non è il padre carnale di Gesù. Il lettore attento aspettava dunque da ventidue capitoli questa domanda di Gesù; quello disattento non l’aspettava, e ne resta spiazzato non meno dei farisei, perché Gesù apparteneva ufficialmente alla discendenza davidica, eppure cita un versetto di un salmo davidico, che riferisce al Messia (ossia a se stesso), per suggerire che il Messia è molto più che un figlio, per Davide, anzi chiede come egli possa essere suo figlio, dal momento che lo chiama “Signore” (Mt 22, 41-45). Nessuno osa rispondere; nessuno osa più ribattere con domande; nessuno, in fondo, ha idea di ciò cui Gesù allude – ovvero del suo segreto, del segreto della sua persona divina.
Ma resta da capire chi sono i farisei, chi sono i sadducei, e soprattutto da dove si vedrebbe, nel modo che Gesù ha di trattarli, che per i primi egli nutrirebbe una certa simpatia, a differenza che per i secondi. Cominciamo dai sadducei, proprio perché il loro rapporto con Gesù è tanto irriconciliabile da definirsi piuttosto chiaramente. I sadducei sono quelli che non rinunciano a parlare di Dio e delle sue cose, e che devono pane e onori ai loro legami con la gerarchia sacerdotale, ma che ciononostante negano sistematicamente tutto quanto nel contenuto della fede non paia immediatamente riconducibile all’esperienza sensibile e all’evidenza intellettiva. Sono dei razionalisti che si baloccano continuamente con le Scritture senza riuscire mai a penetrarne il significato, visto che la Scrittura apre i suoi misteri solo al lettore che si lascia coinvolgere e mettere in discussione dalla Parola che essa contiene. Di loro Luca scrive, negli Atti degli Apostoli: «I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose» (At 23, 8).
I sadducei del tempo di Gesù si sono estinti con la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), dal quale essi ricavavano pane e companatico, ma il “tipo spirituale” del sadduceo è sempre vivo e vegeto, nella storia della Chiesa e della cristianità, perché è sostanzialmente un parassita della società ecclesiale, che mina e corrode dal di dentro, mentre mangia e beve a suo danno. Può consolare che non sia mai mancato chi, come Luca negli Atti, sia riuscito a individuarli e a denunciarli, ma restano enormi (e difficilmente stimabili) i danni che possono causare. Quando Marco, nel suo Vangelo, racconta il medesimo episodio, riporta pure che Gesù avrebbe ribadito alla fine della spiegazione la stroncatura per i suoi interlocutori: «Quindi voi vi sbagliate di grosso» (Mc 12, 27).
I farisei del tempo di Gesù sono invece sopravvissuti alla distruzione del tempio, perché hanno saputo comprendere che non il tempio, ma l’alleanza di Dio conclusa nella legge – che il tempio celebrava – era la spina dorsale della vera religione. Da questa intuizione discende il giudaismo rabbinico, che è l’unico sopravvissuto alla distruzione del tempio e alla profanazione di Gerusalemme: i farisei disponevano dunque del bagaglio di nozioni e di categorie necessario a conservare intatta la massima parte della tradizione giudaica (non a caso, anche Paolo – il “dottore delle genti”! – era fariseo).
Allora perché, se i farisei sono in fondo così bravi, Gesù sembra avercela sempre con loro? Di questo parleremo prossimamente, mentre per il momento dobbiamo accennare qualcosa del “tipo spirituale” del fariseo: se il Vangelo ci racconta dei battibecchi di Gesù non è per il gusto di passarci informazioni sulle sue idee personali (i Vangeli non sono solo opere storiche), ma bensì perché anche il fariseo, come il sadduceo, è sempre vivo e operante nell’organismo ecclesiale. Il fariseo è, dunque, un uomo che crede in Dio e/o vuole crederci, e che di questo impegno ha fatto un punto essenziale della sua vita. Poiché però la fede e la religiosità non dipendono che solo in parte dall’impegno e dalla buona volontà degli individui – e del resto il fariseo non è ben disposto a lasciar cadere la propria (idealizzata) immagine di sé alle ortiche (specie davanti agli uomini) – egli accentua proprio quei tratti della religiosità il cui mantenimento dipende anche solo dalla buona volontà dell’uomo (digiunare, pagare le tasse, fare l’elemosina, dire molte preghiere, perfino lunghe…), col rischio concreto di ritrovarsi a un certo punto a non ricordare più che la fede è un’altra cosa.
Ecco, dunque, perché a Gesù sono molto più simpatici i farisei che i sadducei: i primi sono mossi, in principio, dalla buona volontà di vivere una vita religiosa, e di fatto il sistema che costruiscono li porta – per dirla con un proverbio – “a trenta”, lì dove “manca uno per fare trentuno”; i secondi invece sono mossi in principio dallo scetticismo, dall’incredulità e dall’avidità, e il loro modo di pensare li tiene “a uno”, lì dove “manca trenta per fare trentuno”. La differenza tra i due gruppi (e i due “tipi spirituali”) non si arresta alla quantità di ciò che li caratterizza, ma riguarda anche la qualità: l’uno – per restare nel modo di dire del proverbio – dei sadducei è scelto secondo un “(non)-criterio” di rimanenza rispetto allo scarto previo operato. Essi misurano, in pratica, la rivelazione di Dio con il metro di un’antropologia materialista, e ne trattengono soltanto ciò che passa nelle rigide maglie del loro pregiudizio – quasi niente, e comunque niente di essenziale. Il trenta dei farisei, invece, è scelto secondo il criterio sopra illustrato: essi trattengono dalla rivelazione di Dio ciò che sono in grado di concepire, di ammettere e di “far funzionare” bene. Malgrado alla base dei due ragionamenti sussista sempre un certo grado di mancanza di fede, al principio della mentalità del fariseo sta comunque la buona volontà di “concedere a Dio” anche più di quanto l’uomo possa concepire.
Ecco però perché – dopo aver stroncato e liquidato i sadducei – Gesù si accanisce sempre coi farisei: non si può neanche dire che lo faccia perché loro – mancando “uno per fare trentuno” – ci sono quasi. In realtà, è la qualità ordinale di quell’“uno” che mina radicalmente il loro sistema religioso – non a caso Gesù, rispondendo al fariseo che chiedeva del comandamento “grande” gli dice quale sia il “primo”, che è anche il “grande”. L’uno che manca ai farisei (e al “tipo spirituale” del fariseo) non è in un ordine qualsiasi della successione dei “trentuno” numeri – è il primo – e Gesù non sa darsi pace di questo difetto fondamentale che espone persone buone e volenterose a perdersi e a far perdere gli altri.
È un po’ come se i farisei si ostinassero a chiamare all’infinito un numero telefonico che non appartiene ad alcun utente – perché la prima cifra, e solo quella!, è sbagliata – per il solo fatto che (a ragione) ritengono corretta quella sequenza di cifre. Allora, piuttosto che “perdere tempo” con chi inserisce a caso sul tastierino due numeri su dieci, Gesù, “divino telefonista”, preferisce di gran lunga cercare di far capire a quelli che il numero lo sanno (quasi) tutto e bene, quale sia “il primo numero, quello grande”.