MENU
Ultime notizie

Disarmare le penne (e le tastiere)

Teologi giornalisti–giornalisti teologi: appunti per una pace vera ed evangelica

«C’è da augurarsi peraltro che il dibattito attorno a Bianchi e a Bose che si è recentemente acceso si mantenga nei limiti dell’urbanità e della serietà dottrinale, nella volontà di ricomporre le lacerazioni delle quali soffre il mondo cattolico. Di recente si sono presentate occasioni favorevoli per un serio confronto: il dibattito sui “castighi divini” a proposito di De Mattei, l’affare Castellucci, la discussione attorno a Celentano. Nascano da queste occasioni fenomeni di maturazione e di pacificazione e non l’esasperazione dei contrasti, dei quali siamo tutti stanchi e che non riflettono quella mutua carità che Cristo ha voluto per i suoi discepoli». Così si conclude un recentissimo articolo con cui il domenicano P. Giovanni Cavalcoli ha preso la parola in merito all’Affaire Bianchi, che nelle ultime settimane ha fatto versare tanto inchiostro, fisico o digitale. La parola è chiara, il tono è limpido, gli argomenti lineari e pacati – quali già altre volte abbiamo avuto modo di apprezzare sulle nostre pagine – quantunque l’orientamento generale sia chiaramente molto critico. Cavalcoli mostra di avere idee molto circostanziate sui termini del dibattito, e questo sui molteplici piani che esso comporta o implica.

Tanto per avere un’idea della complessità della faccenda (allo stato attuale della sua evoluzione), si rimanda volentieri il lettore al dossier compilato da Sandro Magister su Settimo Cielo: Magister, pure lui decisamente critico nei confronti di Bianchi e di alcune sue posizioni, ha raccolto una serie pressoché completa degli articoli (pubblicati prevalentemente online) che hanno scandito le fasi della polemica, per poi fare posto a uno scritto di Pietro De Marco (anche lui analogamente orientato) sul “magistero” del Priore di Bose. Le considerazioni di Cavalcoli sono tuttavia d’ispirazione particolarmente felice, soprattutto in quanto hanno il merito di saper astrarre dal singolo Affaire Bianchi, dopo averlo sviscerato secondo scienza e coscienza: i tre “casi” richiamati dal Domenicano in chiusura d’articolo – casi che anche sulle nostre pagine hanno trovato ospitalità e talvolta crivello – hanno effettivamente alimentato discussioni nettamente distinte e al contempo accomunate da alcune caratteristiche ricorrenti.

Quanto si nota è difatti l’emergenza di un fenomeno insieme atavico e nuovissimo: ci sono sempre state discussioni accese, nel mondo e nella Chiesa, e alcune di queste sono sfociate e sfociano in polemiche. È tuttavia ragionevole, in forza di ciò, pensare che la polemica venga sempre e solo dalla vanità intellettuale? Non è plausibile pensare che vi sia stato e vi sia chi polemizza onestamente per amore della verità? Sarà forse il concetto di verità, allora, a poter essere fallato e, di conseguenza, pericoloso; la novità assoluta del fenomeno emergente dai casi summenzionati è che il dibattito teologico entra nei tempi rapidissimi del botta-e-risposta che caratterizza il giornalismo dei nostri giorni.

Chi voglia intervenire in una simile discussione dovrà quindi saper sovrapporre, senza confonderle, la professionalità teologica e la professionalità giornalistica. Un po’ come nella storia del dogma cristologico, anche qui l’oscillazione è tra una “monade” e una “diade”: si ha ragione di sottolineare l’indipendenza reciproca del piano giornalistico e di quello teologico, ma non si deve spingere la dicotomia quasi fino a ritenere che il piano giornalistico sia semplicemente l’àmbito del mezzo mentre quello teologico l’àmbito del contenuto; si ha ragione, del resto, di enfatizzare la portata unificante dell’unico agente, che è insieme teologo e giornalista, ma quest’istanza non deve spingersi fino a misconoscere la distinzione tra i rispettivi dominî e le rispettive competenze. Più scarnamente, una competenza giornalistica non è una competenza teologica, né viceversa: i due paradigmi epistemologici, come le due rispettive deontologie professionali, si suppongono ultimamente conciliabili (ammesso che siano entrambe corrette), ma su di un ulteriore livello.

Una volta di più, si evidenzia che la questione della verità è per l’uomo non meno imperativo etico che anelito teoretico: il voler conoscere implica e fonda il poter conoscere, ed ecco spalancarsi immediatamente al ricercatore l’orizzonte dei fini e quello dei mezzi, e così la questione etica e quella socio-politica. Conoscere la verità esige una condivisione della stessa, e ciò vale tanto (sebbene differentemente) per il giornalista quanto per il teologo.

Ha condiviso la valutazione della rilevanza del fenomeno, il P. Francesco Occhetta S.J., che su La Civiltà Cattolica (Per un giornalismo responsabile, in 3882, 562-573) ha pubblicato un’attenta valutazione della condizione attuale del settore giornalistico in Italia. Al centro della sua introduzione storico-sociale troneggia la sentenza di Montanelli: «In Italia il giornalista non si sente espressione dell’opinione pubblica, ma portavoce della sua fazione. Attacca gli avversari in nome della confraternita di cui fa parte, ma non dirà mai una parola contro la sua confraternita» (Soltanto un giornalista). La virtuale irresponsabilità di una classe giornalistica cresciuta in questo disimpegno nei confronti della formazione dell’opinione pubblica si palesa evidentemente nella facilità con cui non raramente chi scrive si lascia andare a duri colpi di assalto personale: le divergenze di vedute sembrano diventare talvolta il pretesto per l’aggressione – come in un’amara favola di Fedro – e manca ancora del tutto una qualsivoglia istanza cui possa appellarsi chi subisce attacchi personali appena smaltati di scuse ideologiche. Già: chi risarcisce i danni? Come già lamentava Susanna Tamaro in un libro recentemente recensito sulle nostre pagine, pare doversi registrare «una nuova consuetudine quando un quotidiano (anche on-line) crea “il caso” per attaccare non le idee, ma direttamente la persona, come è avvenuto per il caso Boffo e molti altri, tanto che il giorno dopo tutto il mondo del giornalismo (siti, blog, tg) deve rincorrere la notizia e ricostruirla su fonti che a volte non esistono o non sono verificabili» (566).

Il frasario di questo tipo di assalti sembra la vaghezza elevata a principio: «Ci sono alcuni giornali i cui pezzi sono pieni di “probabilmente”, “si può immaginare che”, “si può ipotizzare che”, “si dovrebbe verificare tra poco”» (565). Nonostante le evidenti tare di professionalità che simili impostazioni tradiscono, firme (relativamente) celebri riescono a puntellare con la propria fama le impalcature scricchiolanti dei proprî pezzi, così che pare oscurato il saggio principio del “non badare a chi l’ha detto, ma bada a ciò che è detto”.

E sì che la sentenza 5259/1984 della Corte di Cassazione per la Sezione I civile ha delimitato già da quasi trent’anni l’espansivo e soffocante “diritto all’informazione” (che s’involve in un perverso “dovere di deformazione”), arginandolo con tre precise condizioni: tale diritto si dà con la soddisfazione di «utilità sociale dell’informazione; verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione» (Il foro italiano, 1984, CVII, 2712). Valgono le mezze verità? “No”, rispose la Cassazione: la mezza verità «deve essere […] in tutto equiparata alla notizia falsa», e persino una critica non «improntata a leale chiarezza» è lesiva della verità dei fatti.

Così la Cassazione, e facendole eco il P. Occhetta rilancia le tre priorità su cui rifondare la deontologia del giornalismo: «La responsabilità (saper valutare gli effetti e le conseguenze della notizia); la preparazione rigorosa (conoscere e saper applicare le tecniche della professione); la credibilità (rispettare la verità sostanziale dei fatti)» (568). Uno schema lapidario per un esame di coscienza dal quale l’Albo dei Giornalisti rischia di uscire pesantemente decurtato, a giudicare dal pressappochismo e dal cinismo dilaganti sulla carta stampata e nel web. Il giornalismo cattolico, naturalmente, non è per definizione immune a questo trend, e anzi il programma di rilancio del P. Occhetta può costituire un utile strumento per lo sfoltimento di inarrestabili querelles: alcune penne, all’opposto, come quella di P. Cavalcoli, si segnaleranno per chiarezza ed onestà, nonché per la lealtà con cui trattengono la propria pur secca divergenza dal degenerare in aspro diverbio.

In questo punto, precisamente, quando la deontologia professionale del giornalista è composta ed efficace, lo strumentario concettuale del teologo mostra la fecondità di una sapiente interazione (una sorta di communicatio idiomatum delle professioni): «La sintesi nel rappresentare le opinioni discordi – prosegue Occhetta – deve avvenire nelle redazioni, non la possiamo richiedere soltanto alla volontà del pubblico» (573). E perché? Perché tanto un teologo quanto un giornalista devono essere intellettuali onesti, ed entrambi devono riconoscere che, per quanto protesi nello sforzo dell’oggettività, le Abschattungen di verità da loro riportate sono sempre, in linea di principio, passibili di nuove e più complete ricomprensioni e riformulazioni. Quindi per la teologia Joseph Ratzinger sintetizzò così il magistero di Paolo VI e Giovanni Paolo II: «Le nuove proposte avanzate dall’intelligenza della fede “non sono che un’offerta fatta a tutta la Chiesa. Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un dialogo fraterno, prima di giungere al momento in cui tutta la Chiesa possa accettarle”. Di conseguenza la teologia, in quanto “servizio molto disinteressato alla comunità dei credenti, comporta essenzialmente un dibattito oggettivo, un dialogo fraterno, un’apertura ed una disponibilità a modificare le proprie opinioni”» (CDF, Donum Veritatis, 1990, 11).

Lungi dall’indulgere al (tanto abusivamente citato) relativismo, il cardinal Ratzinger intendeva diffidare i teologi da quell’atteggiamento che, per i giornalisti, Occhetta ha stigmatizzato così: «[…] invece di essere arbitro, gioca il ruolo del “gladiatore” e scende in campo per lottare e vincere. In tal modo possono conquistare audience, ma non fare cultura» (565). La questione principale emerge con forza, ed è quella della verità, ovvero del suo rapporto con la realtà (vale a dire il problema della conoscibilità oggettiva e certa della verità). Nel momento in cui ci s’illude di liquidare siffatti problemi come inutili speculazioni metafisiche, si condanna di fatto tutta l’informazione a sottostare ai capriccî del soggettivismo, nonché alle più o meno dichiarabili alleanze tra piccole o grandi agenzie informative (o deformative, a seconda). La storicità della Rivelazione cristiana, invece, proprio quella inchioda i teologi al mestiere dei giornalisti (esigendone l’aderenza ai fatti di una cronaca sacra e la fedeltà nell’esplorarne i significati) e i giornalisti al mestiere dei teologi (dal momento che la Verità passa in una cronaca, ogni cronaca è diventata terra santa, e la coscienza deve camminarvi scalza e con passo leggero).

Né spinge necessariamente al baratro del nichilismo la strutturale e insuperabile incompletezza della conoscenza umana attuale: riconoscere la verità come «corrispondenza del concetto e della cosa» non significa pretendere di stabilire un dogma ad ogni sentenza corretta, ma molto più postulare che v’è una verità che necessariamente precede il giudizio, e su cui questo si fonda, e una verità che il giudizio produce e fonda. Tale attività di traghettaggio dal mondo delle cose a quello delle idee è l’attività di cui – di fatto – s’innerva ogni società, perché questa responsabilità è il DNA della cultura. Ennesimo paradosso del sentire contemporaneo è che «la libertà di giudizio […] è [ritenuta] più importante della verità stessa» (Donum Veritatis, 32), di modo che il giudizio, “liberato” dalla schiavitù della verità delle cose e dal peso delle conseguenze della verità, si ritrova gaiamente a traghettare il nulla da una sponda all’altra di un fiume senza sponde.

Il felice connubio tra i fondamenti gnoseologici e deontologici di giornalismo e teologia dovrebbe incoraggiare quanti ingaggiano online la pacifica lotta per la verità a proporsi risolutamente ai colleghi giornalisti come esemplari di rettitudine e d’amorosa acribia. Tutti siamo stanchi – dice bene Cavalcoli – di penne che spacciano l’isteria per energia, la chiacchiera per notizia, l’aggressività per zelo, mentre l’occasione che gli odierni mezzi di comunicazione ci offrono è tale da poter significare un inaudito fermento di pensiero e di spirito.

Sono pure accomunati, giornalismo e teologia, dalla paradossale piccolezza del loro grande contributo: tonnellate di carta e milioni di parole vengono rapidamente accatastati e poi dimenticati, infine portati al macero, quasi fossero stati tutto «et aliam vanitatem sub sole» (Qo 4,7). In questo senso viene spesso citata l’ultima dichiarazione rilasciata da Tommaso d’Aquino – abbandonate le carte – per la quale tutto lo sforzo di ricerca e di comprensione dell’uomo non produrrebbe che paglia. L’estensore principale della Donum Veritatis, però, divenuto Papa, ha voluto ricordare – in un’omelia del 2006 alla Commissione Teologica Internazionale – come Jean-Pierre Torrel abbia giustamente sottolineato non essere la paglia un mero nulla: «La paglia porta il grano, e questo è il grande valore della paglia. Porta il grano. E anche la paglia delle parole rimane valida come portatrice del grano. Ma questo è anche per noi, direi, una relativizzazione del nostro lavoro e insieme una valorizzazione del nostro lavoro».

Forse qualcuno capirà che si tratta di raccogliere, e non di disperdere (Lc 11,23), e allora – chissà! – magari «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci…» (Is 2,4).

 

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
Contact: Website