Parità: dove, come e perché la balla non regge
Solo l’essere donna offre a Costanza Miriano un salvacondotto che la preservi, se non dal disgustato disprezzo dei liberali, almeno dal rogo dei garanti delle “pari opportunità”: sì, perché – se a firmare Sposati e sii sottomessa (Vallecchi, 252 pp., € 12,50) non fosse stata una donna – le copie del libro sarebbero state senz’altro impiegate a mo’ di pira catartica. E invece meno male che lo si può leggere, il suo libro, prescindendo dal pregiudizio del maschilismo e lasciandosi stuzzicare dal sottotitolo a rintracciare, oltrepassandone la provocatorietà, il senso del titolo: è una «pratica estrema per donne senza paura», quella cui la Miriano vuole introdurre. Ed estreme sono le reazioni che il libro ha raccolto, in televisione, su YouTube e su Facebook, sui più disparati quotidiani, cartacei e non, su periodici online e sullo stesso blog (clicca link) che l’Autrice ha messo su per raccogliere da se stessa i feedback dei lettori [qui, invece, la nostra recensione a Sposala e muori per lei].
Sorpresa: i cattolici pensano! Ma è la sorpresa di ogni stagione, se le “eccezioni” allo sbiadito stereotipo del bigotto noioso e ottuso sono poi meno infrequenti di quanto si vorrebbe far credere. Il bello, qui, è che oltre a pensare riescono pure a far pensare: lo stile in cui è scritto il libro è fresco e lieve, farcito di una robusta dose di ironia che non ricusa di trasformarsi spesso in autoironia, senza mai caricarsi d’alcun tipo di manierismo. È tuttavia un libro molto complesso perché, a dispetto della lettura felicemente scorrevole, si propone con una notevolissima densità di contenuti: si ha precisamente l’impressione che un manto di fittissime riflessioni, lungamente tornite al moto costante di una ragione illuminata dalla fede, si sia disteso su una solida e molto ben pensata intelaiatura. Un libro scritto verosimilmente in non più di qualche mese, ma che raccoglie patrimonî, stila status quæstionum, abbozza o svolge acute analisi critiche – tutto quanto v’è di meno improvvisabile al mondo. Lo schema formale brilla per un’originale sintesi di generi, visto che consta di una selezione dell’epistolario dell’Autrice corredata di commento tematico: in sostanza si tratta di un genere ibrido tra il carteggio e la raccolta di saggî brevi, che riesce da un lato a dare al tutto il sapore empirico dell’esperienza e dall’altro ad ampliare il portato della comunicazione privata oltre le strettoie (incomunicabili al pubblico) di una relazione i cui dettaglî non possono non sfuggire.
Con ciò non si vuol negare che le lettere siano “autentiche” (intendendo con ciò che sono state scritte veramente per le persone cui risultano indirizzate, o per quelli che sotto dei nomi eventualmente fittizî sono stati celati), ma certo è che il lavoro di redazione è stato importante – la lettera a Livia e Lavinia, in apertura del secondo capitolo, lo mostra abbastanza chiaramente. Sotto la copertura di sottotitoli dal suono ermetico (spesso reminescenze di film o letture), il libro si snoda tuttavia – capitolo dopo capitolo – in uno svolgimento organico e ordinato della materia da trattare: dopo un’autocanzonatoria presentazione posta a mo’ di prefazione (dato importante: ci torneremo), si giunge in medias res col dilemma “Perché sposarsi” (Monica), per poi tornare a premesse di carattere generale sull’“essere donne” (Livia e Lavinia); l’altra metà del mondo viene poi chiamata in causa con la lettera al caro amico (Marco) (dis)impegnato nel curare un durevole “bonsai affettivo” – “la coppia postfemminista apostola dell’uguaglianza di genere”. Di qui fino al successivo carteggio con un uomo viene affrontata soprattutto la prospettiva rosa del piano famigliare: dal dilemma del “trovare il tipo giusto e far funzionare la cosa” (Agata) a ben due capitoli dedicati all’illustrazione “della sottomissione e dei suoi frutti” (Margherita e Agnese), per chiudere con profonde e toccanti considerazioni sul “diventare madri” (Elisabetta) e sull’essere insieme “donne e madri” (Stefania). Con la lettera espressamente dedicata all’“essere padri” (Antonio), il tono del libro cambia marcia e si volge più decisamente ad affrontare le delicate implicazioni e le sensibili conseguenze sociali e culturali – dunque comunitarie – dei modelli di femminilità, genitorialità, famigliarità, professionalità fin lì tracciati: è qui che si “scopre” che un’etica consapevole di sé è già da sempre anche una politica e un’economia. Ma non solo: gli ultimi due carteggî (Cristiana e Marta) donano un importante tratto di realismo anche all’Autrice, che qui depone con vera finta trascuratezza le ombre più umane e più facilmente accessibili della propria figura. Spieghiamoci. Parlando di sé, la Miriano aveva detto: «Di solito comunque la mia risposta a qualsiasi problema è una a scelta tra le seguenti: ha ragione lui; sposalo; fate un figlio; obbediscigli; fate un altro figlio; trasferisciti nella sua città; perdonalo; cerca di capirlo; e infine fate un figlio» (p. 7). In questo la scrittrice si riconosce una «finezza psicologica da centravanti di sfondamento» (espressione quanto mai sorniona, tutto sommato!). Facilmente di lei si ha l’impressione che ella stessa conferma: «[…] Ogni tanto mi trovo a sparare sui prossimi giudizi taglienti come la spada laser di Obi Wan, e quando mi vesto da crociata è bene starmi alla larga» (p. 44). Le sue “ricette” a base di erbe amare possono dare di lei l’idea di una dogmatica di ferro, incurante della complessità delle situazioni particolari: è vero il contrario, proprio perché – come ama ricordare con le parole di Chesterton – «non c’è niente di più trasgressivo ed eccitante dell’ortodossia» (p. 36), e perché, se spesso e volentieri si volta sui trascorsi della società e della sua morale, lo fa solo nella serena fiducia che i famigerati ricorsi storici non sono mai del tutto uguali a se stessi – qualche “anticorpo riformista” resta sempre in circolo, e di quelli bisogna far tesoro.
Ecco da dove arriva la placida sfumatura con cui la Miriano guarda alla controversa storia del femminismo, senza ideologie mitologiche e senza furie restauratrici: «Quindi non rimpiangiamo certo quei tempi in cui ci si facevano pochissime domande, testa bassa e pedalare. Noi però adesso possiamo abbracciare la nostra strada per scelta, senza frustrazioni, non perché sia obbligata, o l’unica possibile, ma perché anche se abbiamo studiato e abbiamo il mondo davanti, abbiamo capito che vale la pena vivere per farsi carico» (p. 167). Categorica, ma non asettica, sull’aborto: «L’aborto è prima di tutto il tradimento estremo verso se stesse e chi è contro vuole anche proteggere le donne dal dolore oltre che difendere i bambini» (p. 166). La valutazione, ad esempio, che fa sulla crisi del ruolo paterno, è quanto mai equilibrata, non tralasciando di ricordare che l’indiscussa autorità di un tempo era sovente brandita senza la minima finezza pedagogica, e che del resto la crisi attuale avrà pure qualcosa a che vedere con la difficoltà degli uomini a trovare un loro spazio in un ambiente famigliare in cui le donne “usurperebbero” le prerogative paterne: «La parità è avere la stessa dignità, non fare le stesse cose. Ognuno secondo i suoi talenti» (p. 203). Già molto prima, del resto, aveva confessato: «Io sospetto che tra la perdita di identità, tutti i vari transgender, metrosexual e anche gli uomini effeminati […] e la perdita di un’idea condivisa e solida di paternità ci sia un legame, ma, lo ammetto, non riesco a dire quale» (p. 88). Ecco che l’armatura della crociata Miriano ha mostrato punti in cui la tanto irritante (perché abbacinante) schermatura di certezze lascia spazio alle ombre opache del dubbio – dubbio, però, che è frutto di onestà intellettuale e non di posa radical chic. Proprio sull’ampio spazio opaco dei dubbî, dunque, l’Autrice torna diffusamente nei due ultimi capitoli: la penultima lettera (Cristiana) tira le fila di tutte le considerazioni che nel libro si sono svolte circa l’opportunità di prospettare alle donne la possibilità reale di realizzarsi su tutti i fronti, ma pure circa l’incivile indifferenza istituzionale allo specifico genio femminile; l’ultima (Marta) è invece il florilegio dei massimi dubbî della Miriano – dato come corona a chi ha potuto sostenere fino all’ultimo l’odioso splendore delle sue ferme certezze.
Sembrerebbe il colmo, ma questo è quello che per la Miriano – una donna indiscutibilmente fiera della fede cattolica che condivide con la Chiesa tutta – è “il dubbio dei dubbî”: «Come si fa a educare alla fede? Come si testimonia quella che noi sappiamo la verità unica, nel rispetto della libertà che i figli crescendo giustamente reclamano?» (p. 237). Il passaggio ci aiuta a soffermarci pensierosi su simili profili personali: che ci si dovrebbe rispondere, se ci si chiedesse se non si profili lo spettro di un (pericoloso) integralismo cattolico, tra le convincenti e documentate argomentazioni della Miriano (come di altri autori sulla stessa lunghezza d’onda)? No, credo: non è integralismo quanto affiora dalle pagine di questo libro, a meno che “integralismo” non indichi la crasi degli attributi di una fede integra, integrale e integrata. «Già che noi cristiani» aveva peraltro scritto «siamo pochi – non che non ci avessero avvertito, con la storia del sale e del lievito – in più qualche volta non ci sforziamo tanto di allontanarci dalla vulgata, […] che ritiene la libertà, l’autodeterminazione, il proprio arbitrio i valori massimi e gli unici intoccabili. Parlare di sottomissione suscita riprovazione, sgomento, ribellione, stizza, schifo» (p. 125). Sì, perché è proprio nella sottomissione – e in ottica cristologica – che viene sanamente intesa la duplice accezione paolina di sacramentalità ecclesiale e di transitorietà della stessa differenza di genere, sull’orizzonte escatologico, ed ecco dov’è il guizzo eversivo di cui parlava Chesterton: «[…] Il meccanismo del dominio non si scardina con la logica dell’emancipazione, che a ben vedere è la stessa del dominio, una specie di vendetta. Se ne esce invece con la logica della mansuetudine» (p. 147).
Qual è il pregio di un libro del genere, e perché si dovrebbe provare della gratitudine per chi l’ha scritto e pubblicato? Sposati e sii sottomessa è un graziosissimo tentativo (in massima parte riuscito) di rielaborare, ripensare, riformulare e comunicare uno stile di vita bello, buono e fecondo; uno stile che perlopiù rivendica a sé natali divini ma che curiosamente non trova la forza di una professione schietta, di una trasmissione convinta e convincente, serena e rasserenante. Costanza Miriano ha perciò il merito di aver tratteggiato – con la leggiadra grazia della Sophia biblica – un percorso possibile per gli uomini e le donne della nostra società in direzione della “vita buona del Vangelo” (clicca link).
Il grande pregio epistemologico del lavoro della Miriano sta pure in questo: se l’Autrice ha potuto scalzare nella sua analisi e nella sua proposta le corte alternative che vengono generalmente prospettate, ciò è stato perché non s’è limitata agli approccî “di genere” o ai dati di statistiche sociologiche, ma perché ha osato radicare la propria visione dell’uomo in un basamento teologico, mettendo debitamente in rilievo l’intuizione-base dei “laboratorî della fede” di Giovanni Paolo II (la verità della fede è sperimentabile nella qualità della vita) e l’armonioso comporsi del dogma cristiano con l’esigenza del cuore umano. Senza tecnicismi e prosopopee accademiche, ma con franca precisione, l’Autrice scrive: «L’essere umano è cosa buona. […] Chi lavora a favore della vita, quindi i genitori prima di tutto, lavora dalla parte giusta. […] Poi c’è il peccato originale. La tendenza verso il male che la cultura dominante pensa si possa imbrigliare con i buoni principi e i buoni sentimenti, ma che invece è potentissima e a volte violenta dentro di noi» (p. 239). E ancora: «L’emergenza educativa viene dal fatto che non si sa perché si educa. A cosa si educa, se neanche i genitori sanno perché vivono e dove vanno? Se si toglie il timor di Dio, come si fa a educare? Se si toglie l’idea del peccato originale e del bisogno di salvarsi, che cosa vuol dire educare? Se togli l’inferno e il paradiso […] perché dovresti conquistarti l’eternità, per rimanere una particella che si libra contenta, secondo le nuove voghe teologiche?» (pp. 245-246).
E le “nuove voghe” sono in realtà vecchie sciocchezze spacciate per grandi novità. Curioso che proprio a partire da questo bel punto di forza della strumentazione concettuale della Miriano si possa (quindi si debba) muovere una piccola critica, o forse un’osservazione: l’armonioso susseguirsi della dedizione oblativa dello sposo all’obbediente sottomissione della sposa – un po’ “il teorema” del libro – viene presentato in lungo e in largo, ma sempre privo di una seria considerazione delle implicazioni che su tale teorema proprio il gelo del peccato originale porta. Leggiamo, per esempio: «[…] Gli offre se stessa e riceve tutto quello che lui ha da dare, perché un uomo invece non resiste alla donna che ascolta la sua voce. […] Bisogna fidarsi, correre il rischio di perdere, se si vuole avere» (p. 100). A questo “buttarsi senza rete”, poi, si appunta una manciata di pensieri sull’importanza di crescere e maturare prima di arrivare a compiere questo passo. Sì, in nuce c’è tutto, ma si sarebbe potuto dedicare qualche momento in più alle situazioni strazianti di donne, di ogni età e condizione, che sopportano le crudeli ingiustizie di mariti per qualche mistero impenetrabili al linguaggio della docilità e della sottomissione. Anche di quelle, in fondo, si può dire a buon diritto che «non scrivono e non fanno tendenza, però esistono e sono anche tante» (p. 214).
Foto: Geraldine Doyle nel celeberrimo manifesto “We can do it”, icona dello sforzo statunitense per la ripresa dopo la II Guerra Mondiale e più tardi del femminismo americano. Aveva solo 17 anni e lavorava come operaia in una fabbrica del Michigan; l’immagine, che fu scattata da un fotografo della United Press, fu poi scelta da un grafico del War Production Coordinating Committee per il celebre manifesto. Particolare.